by Sergio Segio | 22 Settembre 2011 5:46
C’è una favola che gira da così tanto tempo che molti ormai ritengono che sia una storia vera. Racconta che Internet, nella sua avanzata inesorabile, distrugga più posti di lavoro di quanti riesca a crearne: la morale è che la rete ci farebbe perdere occupazione. Accade invece esattamente il contrario.
Il saldo fra posti di lavoro creati e perduti grazie a Internet è sempre positivo: il dato varia molto a seconda di quanto ciascun paese abbia effettivamente investito nella rete, ma il segno finale non cambia. Ed è un segno più. La foto del ruolo trainante di Internet nello sviluppo economico è in un report che la società di consulenza McKinsey ha preparato in occasione del G8 dello scorso maggio, quando il presidente francese Sarkozy volle un prologo (l’e-G8) per analizzare l’impatto della rete sulla politica e sulla economia. Quel report metteva a confronto tredici paesi: quelli del G8 più Cina, Brasile, Corea del Sud, India e Svezia. In questa compagnia l’Italia non ci faceva una bella figura, visto che eravamo in fondo a tutte le classifiche.
Per capire le ragioni di questa debacle, allora venne commissionato un focus proprio sull’Italia le cui conclusioni sono in arrivo nei prossimi giorni. L’economista della Bocconi Francesco Sacco, che partecipa al gruppo di lavoro che sta ultimando il rapporto, ha anticipato quello che forse sarà il dato saliente: l’occupazione. Ebbene dallo studio sugli ultimi quindici anni emerge che Internet ha creato 700 mila posti di lavoro, ne ha distrutti 380 mila con un saldo netto positivo di 320 mila posti. “Distrutti”, non è un verbo scelto a caso: i posti perduti infatti “non sono privi di un costo sociale”, come ha ricordato qualche giorno fa il presidente dell’Agcom Corrado Calabrò, e una società matura deve farsene carico, ma non chiudendo la porta al futuro.
Stefano Quintarelli, uno dei pionieri di Internet in Italia, titolare del più autorevole blog su questi temi, ricorda cosa accadde in Inghilterra nel 1865 quando, per proteggere il posto di lavoro di “cocchieri, vetturini, personale di stalla e agricoltori”, venne emanato il Red Flag Act per cui ciascuna automobile doveva essere preceduta da un pedone con una bandiera rossa in mano. Ironizza Quintarelli: «Chi sentiva il bisogno di queste macchine infernali, che tra l’altro per legge dovevano muoversi con equipaggi di tre persone ad una velocità massima di tre chilometri orari in città ?».
La stessa cosa, una avanzata a passo d’uomo dietro una bandiera rossa che segnala il pericolo in corso, rischia di capitare con Internet. Soprattutto in Italia, il paese che meno si sta avvantaggiando della ricchezza che la Rete porta alla economia. In Francia per esempio il risultato occupazionale è questo: un milione e 200 mila posti di lavoro creati in quindici anni, 500 mila perduti, saldo positivo 700 mila. In pratica, da noi ogni due posti perduti se ne creano tre, in Francia cinque.
Perché questa enorme differenza? Ci sono tanti motivi: il più evidente è la scarsa diffusione della banda larga e quella, pressoché inesistente, della banda ultralarga (fino a 100 megabit al secondo). Calcola Sacco: «È dimostrato che ogni 10 per cento di aumento di penetrazione della banda larga, la ricchezza di un paese in termini di Pil cresce dell’1 per cento. E ogni mille nuovi utenti di banda larga si creano 80 nuovi posti di lavoro». Ci sarebbe da correre a dare un senso al tavolo aperto mesi fa dal ministro Paolo Romani con le società di telecomunicazioni che finora non ha prodotto nulla o quasi. Del resto quando lo scorso giugno il ministro Tremonti provò ad inserire nella manovra del Patto di Stabilità una norma che equiparava l’accesso a Internet ad un diritto universale facendo propri gli obiettivi della Agenda Digitale Europea (connessione garantita minima per tutti a 30 megabit: oggi siamo sotto i 3), fu messo in minoranza dallo stesso governo e ne uscì un articolo molto blando che si limitava a generici auspici.
Non è però solo una questione di fibra (ottica). C’è una questione di cultura. Di incapacità di capire il potenziale di innovazione portato dalla rete non solo per le aziende che offrono servizi Web, ma soprattutto per le altre. Secondo McKinsey, «Internet comporta una modernizzazione per tutti i settori economici e il maggiore impatto positivo si registra per le imprese tradizionali: tre quarti della ricchezza totale prodotta dalla rete viene da aziende che non si definiscono Internet player ma che hanno beneficiato dalla innovazione digitale». In questo ambito, il ruolo più importante sembrano giocarlo le piccole e medie imprese, che grazie alla rete possono fare economie di scala, aprirsi a nuovi mercati e recuperare competitività : fra 4800 casi analizzati in occasione del G8, «le aziende con una forte presenza Web sono cresciute molto di più, fino al doppio di quelle che invece non usano la rete. Le prime hanno anche un valore doppio di esportazioni e di posti di lavoro creati».
Ed è qui che cade l’Italia, secondo Sacco: sull’atteggiamento di chiusura delle piccole e media aziende verso la rete. I 700 mila posti di lavoro creati da Internet in 15 anni riguardano soprattutto le grandi aziende, le altre hanno invece un saldo zero: uno si crea e uno si distrugge.
Che fare? Investire sulla rete, naturalmente, a partire dalle entrate impreviste dell’asta in corso per le frequenze dell’Internet mobile, come ha scritto Calabrò al governo e al parlamento. Ci si aspettavano 2,4 miliardi di euro: siamo già sopra i 3 miliardi. Ce n’è abbastanza per abbattere il digital divide, portando finalmente la banda larga in tutto il paese: «Il valore socioeconomico di coprire il 100 per cento della popolazione – sostiene Sacco – è più alto di quello di portare la banda ultra larga al 30 per cento della popolazione». In palio, c’è il nostro futuro prossimo: secondo la società di consulenza Boston Consulting, oggi in Italia Internet vale il 2 per cento del Pil, pari a 36,1 miliardi di euro: nel 2015 questo valore può raddoppiare, con una crescita annua fra il 13 e il 18 per cento». Dipende dalle scelte che faremo oggi.
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