Così Pechino spegne Internet

by Sergio Segio | 13 Settembre 2011 6:30

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Pechino. La Cina oggi controlla il pianeta degli uomini e dei soldi. Ciò che gli sfugge è il mondo delle idee, l’unico essenziale per la stabilità  di qualsiasi potere autoritario. Internet, più del dissenso ufficiale, è il grande nemico di Pechino, probabilmente l’ultimo, il solo a spaventare ormai i leader del partito comunista. La tentazione di spegnere la Rete, isolando virtualmente la nazione dalla comunità  globale, risale a tredici anni fa: niente web niente tentazioni di libertà , hanno concluso i censori cinesi, ed è scoppiata la più costosa guerra invisibile del secolo.
Il nuovo motore della crescita non obbedisce però più esclusivamente agli ordini ideologici dei successori di Mao, dipendenti dalla propaganda. Anche in Cina comanda il business e le cose, per le dittature come per le democrazie, si fanno assai più complicate. Il prezzo di una società  disconnessa è insostenibile e la seconda potenza del mondo è scossa dalla più pericolosa delle contraddizioni: vanta il record di oltre 450 milioni di cybernauti, ma pure il primato delle barriere che impediscono loro di navigare in uno spazio libero.
Due fatti, negli ultimi mesi, hanno impresso una sorprendente accelerazione allo scontro tra il governo di Pechino e la nascente opinione pubblica nazionale, esausti da oltre vent’anni di battaglie sulla strage di Tiananmen, sull’indipendenza del Tibet e dello Xinjiang, sulle frodi alimentari e sulle truffe degli aiuti alla ricostruzione dopo i terremoti. Nell’ottobre di un anno fa Liu Xiaobo, condannato a dieci anni di carcere per le critiche al potere, ha ricevuto il premio Nobel per la pace e non ha potuto nemmeno ritirarlo. Da fine gennaio, con l’esplosione delle rivolte popolari in Nordafrica, anche la Cina è percorsa da sotterranei movimenti, decisi ad importare in Asia il germe della rivolta contro la repressione. Lo stupore per il riconoscimento occidentale a un intellettuale ignoto in patria, o presentato come terrorista, e gli appelli a una pacifica rivolta dei gelsomini, sul modello arabo, hanno sfruttato il mezzo incontenibile dei social network. Non era mai accaduto che un’altra Cina virtuale, parallela a quella reale abituata a imprigionare chi chiede giustizia nelle carceri clandestine, emergesse quale minaccia all’esclusiva della verità  rivendicata dalla scuola del partito.
La reazione è sotto gli occhi distratti di ognuno. La “Grande Muraglia di Fuoco”, il filtro online ideato nel 1998, è mutato da vecchio strumento di censura ad arma della nuova propaganda web. I software che bloccavano le parole chiave dei “temi sensibili”, mettendo fuori gioco Twitter, Facebook, YouTube e i siti che veicolano lo scambio accelerato delle informazioni, sono ora controllati da un esercito di 60mila agenti elettronici e da una massa di milioni di “volontari patriottici”, stipendiati per diffondere e sostenere in tempo reale l’opinione ortodossa sugli eventi, per intasare la Rete con notizie false, per trasformare il dissenso in consenso, o per cacciare e denunciare gli internauti indipendenti. L'”Armata dei 50 yuan”, dall’importo mensile per la delazione, ha il compito di condizionare, incanalare e infine armonizzare il sentire comune, fino a ridurre blog e portali ostili nel primo alleato del governo. Il risultato è straordinario: l’infiltrazione delle spie comuniste tra le file cinesi del popolo di Internet nel 2011 ha portato alla chiusura di 2,1 milioni di siti “fuorilegge”, il 42,3% di quelli aperti dopo il 2008. In quattro mesi, tra il Nobel a Liu Xiaobo e i tentativi delle “passaggiate democratiche” a Pechino e a Shanghai, oltre 400 dissidenti sono stati arrestati, o fatti sparire, grazie all’intercettazione istantanea dei loro messaggi online.
Per anni era bastato dotarsi di “proxy” speciali, o di “Vpn”, per aggirare il Muro contemporaneo che divide il mondo libero da quello in cui un’opinione personale può essere considerata un «attentato alla stabilità  nazionale». Con l’estate il bavaglio cinese ha affinato i suoi controlli, pochi secondi di contatto a distanza possono bastare per ricevere un invito online a «bere un tè» nella più vicina stazione della polizia e le idee diverse dal credo ufficiale sono diventate crimini comuni. L’assemblea nazionale del popolo ha trasformato il dissenso in pornografia, gioco d’azzardo ed evasione fiscale, come nel caso dell’archistar Ai Weiwei, oppure nel tentativo di diffusione di notizie contrarie all’interesse nazionale.
In Cina si gioca così la partita decisiva del decennio, segnato dall’irruzione di Internet nel destino del confronto tra il tramonto delle democrazie partorite nel Novecento e l’alba degli autoritarismi legittimati dall’andamento dei mercati. La sfida di Pechino è cancellare la sete collettiva di verità  presentandola come cedimento individuale alla menzogna, riducendo Internet da acceleratore sociale della globalizzazione a freno in balìa di oligarchici poteri nazionali. L’ultimo passo è controllare le persone anche quando si trovano nei luoghi pubblici. Da fine luglio, bar, ristoranti, alberghi, librerie e ogni altro luogo aperto ai cittadini sono costretti ad installare un software da tremila euro che fornisce alla polizia l’identità  e le coordinate geografiche di chi si connette wi-fi. Chi sgarra rischia duemila euro di multa e la revoca della licenza e migliaia di cybercafé sono ora costretti a scegliere tra la chiusura e il piegarsi a ingrossare le fila dello spionaggio elettronico di Stato. La clientela dei locali frequentati dagli internauti è già  crollata del 40% e nelle metropoli milioni di lavoratori cinesi, in gran parte emigrati dalle campagne, hanno perduto il solo mezzo per comunicare con la famiglia. Lo stesso Weibo, microblogging del portale Sina.com, controllato dal governo, è finito nelle maglie delle autorità . Un mese fa era stato adottato quale piazza virtuale della rabbia popolare contro corruzione, errori e bugie che hanno tentato di sopire l’indignazione per la tragedia ferroviaria di Wenzhou. Ieri gli uffici di Weibo sono stati visitati dal segretario del partito di Pechino, Liu Qi, che ha annunciato «controlli più stretti per prevenire la diffusione di notizie dannose». Ormai è una corsa contro il tempo e contro le conquiste dell’hi-tech, tese a fare in modo che ogni soggetto-web, per diventare tale in Cina, debba registrarsi con la reale identità , presentare i documenti, i numeri della carta di credito e superare un test politico di accesso alla comunità  netizen. La nuova «patente per Internet» è rilasciata dal ministero dell’informazione e si appresta a distinguere i futuri cittadini ufficiali, ammessi al premio della crescita, dal popolo sommerso degli esclusi.
La Cina che cancella la Rete, che la reinventa da ponte sopra i confini in barriera che definisce l’Occidente e l’Oriente, fino a trasfigurarla nel certificato vitale di esistenza di ogni individuo, a discrezione dei leader al potere, è la sconvolgente novità  che si nasconde nel cuore della crisi finanziaria che ridisegna il mondo. Per chi vive al di qua del “Muro di Pechino” possono sembrare “fatti loro”. Il web eletto a dissidente da annullare è invece il nostro primo, non affrontato problema: Internet è l’abito che veste la democrazia contemporanea e se la prossima prima potenza del pianeta si rifiuta di indossarlo, per conservare e diffondere una forma nuova di totalitarismo economicamente vantaggioso, il mondo si scoprirà , ancora una volta, nudo.

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