Così la scuola scoppia

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Rumore. Un fiume di bambini fa molto rumore, e anche un po’ di paura (per loro) quando si riversa tra grida e spintoni nel corridoio. È questa la prima sensazione quando ci si affaccia nella classi sovraffollate dove anche la – criticatissima – ultima circolare ministeriale che autorizza classi di 26 alunni diventa lettera morta di fronte a una necessità : accogliere tutte le famiglie che bussano alle porte di una scuola pubblica calpestata e dimenticata. I bidelli si fanno segnali da una parte all’altra del corridoio, “ferma quello, guarda quell’altro”, sembrano dire, disincantati e impotenti, e certo non resta loro tempo per fare le pulizie.
Subito dopo, arriva la seconda domanda: come si può insegnare a leggere, scrivere e fare di conto a bambini che siedono stipati in aule simili a pollai? Ventisette piccoli di sei anni, prima elementare (tanti ce ne sono alla “Aristide Gabelli”, una scuola di Barriera di Milano, subito al di là  di Porta Palazzo nella periferia orientale di Torino) sono difficili da controllare. C’è chi non sta fermo un secondo, chi lancia oggetti ai compagni, chi grida, chi piange e chi ride, chi, come Benjamin, non sa parlare e avrebbe bisogno di un insegnante di sostegno che non c’è. Alle otto del mattino suona la campanella di questa scuola costruita cento anni fa. Un fiume di bambini (in tutto sono 750), jeans, magliette e scarpe colorate, scorre lungo i corridoi e le scale, che, per fortuna, sono state costruite quando lo spazio non era un problema e le città  potevano essere disegnate pensando al futuro. C’è di peggio, in giro per l’Italia dei tagli alla scuola, dove qualche volta anche alle elementari si arriva a 30 o 31 bambini per classe. Alla Gabelli una vigorosa dirigente scolastica, Nunzia Del Vento, continua a scrivere e cancellare e spostare nomi su dei tabulati, chiede ai bidelli di portar su qualche altro banco dalle cantine, decide se e quali porte rimontare perché si aprano nell’altro senso. Una porta cambiata può rivelarsi decisiva: se si apre verso l’esterno la classe diventa più grande e invece di due banchi per fila se ne possono mettere tre, un po’ come su un aereo low cost. E siccome un funzionario pubblico, anche se è arrabbiato, dovrebbe far funzionare le cose, la direttrice cerca, anche, di far quadrare i conti: «Abbiamo 58 insegnanti e pochissime unità  di personale non docente, così avevamo già  chiamato le cooperative per l’assistenza e gli altri servizi. Quest’anno i fondi a disposizione sono stati ridotti del 26 per cento. La coperta è corta, sorvegliare che i bambini non si facciano male durante l’intervallo è la cosa più importante di tutte, vorrà  dire che taglieremo sulle pulizie…».
«Così, però, stiamo buttando via la qualità  di una scuola pubblica che era tra le migliori d’Italia – commenta Silvia Bodoardo, mamma e rappresentante del Coordinamento dei genitori – e, cosa ancora più grave, produciamo ingiustizie: chi è seguito a casa ce la farà  comunque, chi non ha mezzi si fermerà  alla fine dell’obbligo, anche se ha talento e bravura». Ma alla Gabelli molti genitori non hanno tempo per queste cose. «Abbiamo il 70 per cento di bambini di nazionalità  non italiana, in gran parte nati qui, ma molti appena arrivati – spiega Del Vento – Queste famiglie sono soggette a una mobilità  altissima, si spostano, vanno dove c’è lavoro o dove trovano una casa, e non è possibile prevedere in marzo quanti bambini ci saranno in settembre, come vorrebbero i regolamenti. A luglio mi sono resa conto che erano già  troppi e ho scritto alle scuole vicine per chiedere aiuto. Nessuna risposta, ma non mi stupisce, sono piene anche loro. Gli ultimi sono arrivati in settembre, tre fratellini, alla famiglia era appena stata assegnata una casa popolare proprio qui dietro… Giustamente, la legge prevede che non si possa respingere nessuna domanda, giustamente i genitori vogliono una scuola sotto casa, comoda, dove i meno piccoli possano andare e venire anche da soli… Ed eccoci qui». Nel caos, allegro ma faticoso, della 1 A l’appello del mattino non esiste più, e del resto chi riuscirebbe a leggere tutti quei nomi e quei cognomi e a sentire le risposte? Meglio contare, e controllare un po’ per volta col registro alla mano, e abituarsi un giorno dopo l’altro alle nuove facce e a nuovi nomi che arrivano da tutto il mondo. Perfino la Somalia con la sua carestia contribuisce a riempire i corridoi della scuola intitolata a un filosofo semi-dimenticato, perché da un anno a questa parte i bambini che arrivano dal cuore dell’Africa sono sempre di più e stanno per raggiungere altri gruppi, i piccoli cinesi (molte delle loro famiglie, intanto, si stanno spostando in nuovi quartieri), i rumeni, i marocchini. La maestra Antonietta spiega: «Facciamo incontri con diversi gruppi di genitori, i bambini sono molto bravi nell’aiutarci a tradurre quando manca il mediatore, i moduli per l’iscrizione li abbiamo fatti nelle diverse lingue anche grazie a loro». Alle pareti ci sono ancora i disegni dell’anno scorso, domina il tricolore e l’idea di Italia e di Risorgimento pare popolarissima in questa scuola di periferia, dove tutti sanno fare tutto e le maestre sono diventate bravissime ad appendere ai fili tesi di traverso ai corridoi disegni e piccoli oggetti fatti dai bambini. Ma non potrà  andare avanti a lungo: «Banchi e arredi non ci sono ancora mancati perché ce li aveva comprati il Comune, che ora non potrà  più farlo. Quest’anno per la prima volta abbiamo tagliato un pomeriggio di scuola alla settimana, prima si usciva sempre alle 16,30, ora al venerdì si va a casa, anche se mamma e papà  lavorano. Gli alunni sono tanti, non posso obbligare tutti a lavorare più del dovuto o a fare straordinari non pagati». Se le si chiede come va con la didattica, che cosa si riesce a insegnare a una classe di 27 piccoli urlanti, la direttrice sorride: «Abbiamo insegnanti bravissimi e motivati, anche chi arriva da lontano impara l’italiano rapidamente. Semmai i problemi sono altri: i bambini disabili che non hanno abbastanza sostegno, la crisi che rende difficile per le famiglie pagare di tasca propria materiali o attività . La legge dice che la scuola dell’obbligo deve essere quella più vicina a casa, a meno che i genitori non ne scelgano un’altra sulla base dei “principi educativi”. Beh, qui non capita mai…». In compenso, Nunzia Del Vento è preoccupata per i Vigili del Fuoco. Già , perché i certificati antincendio non si aggiornano con la stessa velocità  del fiume di bambini che preme alle porte della scuola, e se su un certificato c’è scritto che in quell’aula ci sono 24 o 25 persone, maestra compresa, non dovrebbe essercene neppure una di più. «Alcuni di noi – spiega la direttrice, che è anche un’esponente dell’associazione sindacale dei dirigenti scolastici – non ci dormono la notte, la responsabilità  civile e penale è tutta sulle nostre spalle». Chi ha tagliato con l’accetta i conti delle scuole, poi, non ha pensato che nel frattempo anche i bilanci dei Comuni precipitavano verso il basso. A Torino, dove dalle mense ai banchi, dagli scaffali alle palestre, anche nelle scuole statali, molto è stato spesso speso dalla città  perché ministri e ministeri erano troppo lontani e quelle cose altrimenti non sarebbero mai arrivate, ora il problema è tangibile, e al Comune non si può più chiedere neppure un tavolino. Così, ci si arrangia: il Comune manda ancora i suoi tecnici a cambiare il senso alle porte senza spedire il conto al ministero, e continua (con fatica) a fare appalti per il servizio di mensa, ma tutti sanno che i tempi della generosità  tra istituzioni sono finiti. Come una madre che ha fatto provviste, Nunzia Del Vento pensa a voce alta: «Per fortuna, due anni fa avevamo pensato di chiedere qualche tavolo in più e gli armadi chiusi dove i libri non prendono la polvere. Mi ricordo che mi ero detta ‘così ci resta un po’ di scorta’…». Per fortuna, quasi per miracolo, i portoni della Gabelli, una scuola grande come un isolato, si spalancano ogni mattina alle sette e si richiudono la sera alle sei, quando anche chi lavora fino a tardi si decide a andare a casa, quando anche l’ultimo bambino è stato preso dall’ultima mamma trafelata. E quando alle 9.55 suona la campanella del primo intervallo, fa un po’ di paura vedere quel groviglio di bambini che si precipita in corridoio, corre, spinge. È solo il 15 settembre, bisogna arrivare fino a giugno. Ma i miracoli, si sa, non si ripetono all’infinito.


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