Confalonieri e Letta al premier “Silvio, tratta la tua exit strategy”

by Sergio Segio | 12 Settembre 2011 6:49

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«Ragioniamo su una exit strategy. Pensaci, se concordi un’uscita puoi trattare. Ma soprattutto il clima di assedio si attenuerà  solo per il fatto che non stai più a Palazzo Chigi».
Nella fase di torpore che sta paralizzando il governo e la maggioranza, solo due autorevoli esponenti del mondo berlusconiano hanno avuto il coraggio di parlare con schiettezza e sincerità  al presidente del consiglio. Si tratta di Gianni Letta e Fedele Confalonieri. Gli “amici di sempre”, gli unici in grado di rivolgersi al Cavaliere senza dover temere l’accusa di tradimento o di intelligenza con il nemico. Entrambi lo hanno esortato a considerare un percorso che lo guidi fuori dalla presidenza del consiglio senza scossoni e soprattutto con un iter concordato. In tutti i suoi aspetti.
Sia il sottosegretario alla presidenza del consiglio, sia il presidente di Mediaset hanno rotto gli indugi la scorsa settimana. E non è un caso che Confalonieri abbia esposto le sue riflessioni all'”amico Silvio” mercoledì scorso. Dopo un lungo faccia a faccia con il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini.
Nessuno nella coalizione governativa si era spinto a tanto negli ultimi giorni. Il passo di “Gianni e Fedele” rientra nei suggerimenti “amichevoli” e non in quelli “politici”. Sta di fatto, però, che il tema dell'”exit strategy” per la prima volta ha spalancato le porte di Palazzo Chigi. Nella consapevolezza che sul tavolo del confronto possono arrivare provvedimenti come quello sulle intercettazioni o il processo breve. Norme che, in un quadro politico nuovo, godrebbero di una corsia preferenziale.
Ma intanto il tabù si è infranto definitivamente: in tutta la maggioranza – a cominciare proprio dal Pdl – non c’è un solo ministro o deputato che ormai non inserisca nel novero delle cose “necessarie” o “possibili” il passo indietro di Berlusconi. Sebbene nessuno abbia avuto fin qui il coraggio di esplicitare l’invito. A parte il presidente della Commissione Antimafia, Beppe Pisanu. «Qualcuno glielo deve dire», è la frase di cui un po’ tutti abusano tra i banchi della maggioranza.
Per una volta il capo del governo ha ascoltato le motivazioni di Letta e Confalonieri. Sa che dietro le loro parole non si cela un doppio gioco. «L’unica cosa che posso rimproverare a Gianni – è la frase che il premier ripete ogni volta che deve difendere il suo sottosegretario – è l’aria condizionata. La tiene troppo alta».
Ma, per il momento, non si è lasciato convincere dal discorso degli «amici di sempre». «Io non mollo – ha ripetuto – . Voi dite che l’assedio si dissolverà . Io invece penso che mi porterebbero direttamente in galera». Insomma la parola d’ordine a Palazzo Grazioli rsta per ora una sola: «resistere». Anche il viaggio di domani a Bruxelles e Strasburgo è stato organizzato in quest’ottica. «Quella testimonianza può essere rinviata – ripete con una certa dose d’ira – perché ho già  spiegato che non sono vittima di un’estorsione. E perché c’è un problema di competenza. Non è la procura di Napoli a dover indagare. Comunque a Bruxelles ci vado per riparare al danno provocato dall’opposizione e dai giornali che sputtanano la manovra. Devo spiegare che le nostre misure sono credibili».
Insomma il refrain berlusconiano non cambia. Nonostante gli “amichevoli” suggerimenti. Ma il tema dell’exit strategy – al di là  della volontà  del Cavaliere – rappresenta ormai la cornice entro la quale quasi tutti si stanno muovendo. Anche nel centrodestra. Basti pensare alle dichiarazioni pubbliche di uomini come Gianni Alemanno. La flotta dei “malpancisti” non dichiarati va via via ingrossandosi: con tanto di ministri e capigruppo. Per non parlare della Lega. Che si ritrova con una base ormai in rivolta. Con la componente guidata da Roberto Maroni sempre più innervosita e con Umberto Bossi sempre più incapace di orientare il malessere.
Ma, appunto, ormai il “piano d’uscita” sta diventando il cuore dei contatti informali tra alcuni dei big della maggioranza e i leader dell’opposizione. E nell’orizzonte di un esecutivo tecnico o di larghe intese molti inseriscono nella trattativa provvedimenti come le intercettazioni o il processo breve. Sapendo, inoltre, che il caso Mills si prescrive tra breve, a febbraio prossimo. Un’opzione però – spiegano i diretti interessati – che non potrà  mai diventare pubblica. «Si può concordare con Berlusconi – spiega Pier Ferdinando Casini senza entrare nello specifico – un’agenda delle cose da fare da qui alla fine della legislatura». E in molti nel Partito democratico ricordano l’operazione compiuta 15 anni fa da Massimo D’Alema. Il 4 aprile 1996 – alla vigilia della vittoria di Romano Prodi – andò in visita nella sede di Mediaset e rassicurò: «Non ci sarà  alcun day after. State tranquilli: non ci saranno liste di proscrizione. Avremo la serenità  sufficiente per trovare intese».
Del resto, nei pensieri del Cavaliere il futuro delle sue aziende è una costante. E lo stesso segretario del Pd, Pierluigi Bersani, da giorni va ripetendo ai suoi: «E’ chiaro che non sarà  alcuna ritorsione. Cosa c’entra un’azienda con la politica?». «Ma – puntualizza il vicesegretario Enrico Letta – non accetteremo baratti». Ma le precisazioni contemplano e non escludono quelle possibilità . Anche perché l’idea di un governo di larghe intese presieduto da un “tecnico” come Mario Monti per qualcuno potrebbe prevedere pure il coinvolgimento diretto dei leader dei principali partiti. Nel Pdl qualcuno si spinge a chiedere come contropartita l’elezione del Cavaliere al Quirinale come “suprema garanzia”. Ma il progetto è già  stato scartato: né Casini né Bersani sono intenzionati ad accettare una soluzione del genere.
Tant’è che il fattore principale su cui Confalonieri e Gianni Letta hanno insistito la scorsa settimana è il clima complessivo che si è creato intorno a Palazzo Chigi. E che potrebbe mutare rapidamente proprio in presenza di un passo indietro. Del resto, tutti nel Popolo della libertà  hanno capito che la reazione dei mercati alla manovra economica risente in primo luogo dell’ostilità  che circonda il premier a livello europeo (a via del Plebiscito sono impauriti anche della reazione che avrà  domani il presidente del consiglio europeo Van Rompuy durante il faccia a faccia). La distanza che si è formata con la cancelliera Merkel e il presidente Sarkozy, ad esempio. O i dubbi della Bce che potrebbero acuirsi con la nuova presidenza di Mario Draghi. Gli uomini di Berlusconi, poi, sono terrorizzati da quel che potrà  accadere oggi in Borsa e da quello che potrà  uscire dalle famigerate intercettazioni di Bari (a partire dalle voci su una colorita battuta proprio sulla Merkel). Una miscela esplosiva. Cui si aggiunge il dietrofront di Confindustria e Cisl, e la diffidenza della Chiesa.
Insomma tutto sembra confezionato per rendere percorribile l'”exit strategy”. Ma per ora manca il tassello principale: Berlusconi non ha alcuna intenzione di farsi da parte. «Io vado avanti. Sono un combattente e non ci penso a mollare. Se cado si va alle elezioni. Dite che prendo il 20%? Non sarà  così, ma anche se fosse, quel 20% mi consentirà  di trattare». Del resto, quando qualche settimana fa un autorevolissimo rappresentante delle istituzioni italiane chiese ad Angelino Alfano di «considerare la sua giovane età  e il suo futuro politico», il neosegretario Pdl rispose: «Ma lei non capisce che dopo Berlusconi non ci sarà  nessuno di noi».

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