Condannati per genocidio quelli dell’«octubre negro»
Una sentenza, finalmente. La prima – e quasi certamente la sola: è inappellabile – per la «guerra del gas», quella rivolta per la svendita del gas boliviano che diventò rivoluzione e finì per scalzare un potere di secoli e spianare la strada al primo presidente indigeno della storia del paese, Evo Morales. Adesso sarà definita «storica», questa sentenza, qualcuno già sta celebrando il primo giudizio per genocidio mai fatto in Bolivia – che di genocidi ne ha conosciuti eccome – e festeggiando come può. Ma la conclusione del lungo, lunghissimo processo ha lasciato ugualmente l’amaro in bocca. «Solo» 72 anni di carcere, complessivamente, per sette imputati, quasi tutti militari, riconosciuti responsabili di un saldo ufficiale di 67 morti e circa 500 feriti. Nove dei responsabili, quasi tutti ministri, sono e restano latitanti. Compreso il più colpevole di tutti: Gonzalo Sanchez de Lozada, «El Goni», il presidente che ordinò ai fanti del IV Ingavi di uscire dalle caserme e di reprimere a fucilate la teppaglia che scendeva da El Alto, la suburra sopra La Paz, per protestare contro quel gas di proprietà pubblica con cui il presidente si riempiva le tasche cedendolo all’estero.
Ecco le condanne della corte suprema: gli ex capi militari Roberto Carlos Flores e Juan Veliz Herrera, 15 anni e sei mesi nel carcere di San Roque, nella città di Sucre; il generale José Quiroga Mendoza e l’ammiraglio (curioso grado: la Bolivia non ha alcuno sbocco al mare) Luis Alberto Aranda, 11 anni; il generale Gonzalo Mercado Rocabado, 10 anni; gli ex ministri Erick Reyes Villa (ambiente) e Adalberto Kujara (lavoro), 3 anni per complicità in genocidio. Uno dei ministri di De Lozada, il segretario di governo Yerko Kukoc, è morto in Bolivia nel giugno scorso. Tutti gli altri componenti dell’esecutivo che ordinò di sparare sono latitanti negli Usa, in Perù, in Spagna.
Era un’altra Bolivia, quella dell’ottobre del 2003, da allora e per sempre octubre negro. Gonzalo Sanchez De Lozada era per la seconda volta presidente, come sempre il paese era a corto di liquido, e come sempre vi faceva fronte scendendo le proprie risorse naturali. Goni De Lozada aveva appena deciso che il gas dei ricchi giacimenti di Tarija sarebbe andato a finire in Cile, attraverso il consorzio Pacific Lng – che non gli aveva fatto mancare il proprio generoso sostegno. In poche settimane il paese – in cui il gas è usato per qualsiasi cosa: persino molte automobili sono modificate per funzionare con la bombola del gas casalingo – era passato dalla protesta alla mobilitazione. E da El Alto, la città -satellite sopra La Paz dove vivono i poveri, aveva cominciato con le barricate e i blocchi stradali, chiudendo le vie d’accesso alla capitale.
De Lozada non si era preoccupato più di tanto: i governi boliviani avevano affrontato innumerevoli sollevazioni – non a caso il palazzo del governo di chiama Palacio Quemado, palazzo bruciato. Aveva raccolto un po’ di soldi (questo dettaglio lo rivelerà Evo Morales, già presidente, in una memoria presentata al processo a nome del governo) e li aveva destinati agli alti comandi militari, ordinando loro di stroncare la rivolta. Il primo giorno i reggimenti erano usciti dalle caserme per prendere la rivolta a fucilate. Già il secondo giorno, molti fanti rifiutarono di sparare sui loro stessi parenti. Al terzo fecero sapere che non si sarebbero più mossi. Il 13 ottobre 2003, con 20mila manifestanti a scontrarsi con la polizia nelle strade, il vicepresidente Carlos Mesa ritirò il proprio appoggio al governo. Chiese e obitori erano già pieni di morti e di feriti, parroci indignati guidavano gli indigeni aymara che abbattevano a forza di braccia i vagoni ferroviari che la polizia aveva piazzato di traverso per le strade. Il 17 ottobre De Lozada annunciò in tv che si sarebbe dimesso, ma invece di presentarsi in parlamento infilò la famiglia e un po’ di beni in un elicottero e fuggì, prima nella fedele Santa Cruz dei cambas ricchi di pianura – gli avversari storici dei kollas, la gente povera di montagna – e da lì a Miami. Come lui, con vari rimbalzi tra il Perù e la Spagna, anche il resto del governo.
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