Con gli squali non si scherza

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 Le borse mondiali corrono, cercando di dimenticare un agosto da infarto. Ma se si guardano ai «fondamentali» – le attese sui profitti futuri delle aziende quotate – non si vede alcun motivo per un rally. La crescita rallenta, specie nei paesi più avanzati, è già  quasi a zero; ergo, le aziende non possono sperare di far molto meglio. La relativa euforia dell’ultima settimana, dunque, sembra motivata da «ragioni esterne» ai mercati.

Non ci vuol molto a capire che queste ragioni sono rappresentate dall’impegno della Federal Reserve statunitense e della Bce a «fare tutto il necessario per sostenere l’economia». Impegni «politici», dunque, per quanto le due istituzioni ci tengano molto a mantenere un profilo solo «tecnico». Ma i loro stessi statuti le obbligano – più l’americana che l’europea – a mettere in campo «azioni» per realizzare obiettivi «spontaneamente» irraggiungibili per via di mercato. Entrambe, per esempio, hanno comprato titoli di stato per sostenerne il valore e contenere le differenze di rendimento – i citatissimi spread – entro limiti non destabilizzanti. In ogni caso, il loro «portafogli» è in definitiva garantito dagli stati di riferimento: uno esistente (gli Usa), l’altro in fieri e sorpreso dalla crisi a metà  del guado (l’Europa).
Sta di fatto, quindi, che il capitalismo attuale sembra aver ridisegnato globalmente il ruolo degli Stati nazionali: non più di governo e sostegno di territori limitati, vincolati dal consenso delle rispettive popolazioni, ma di «sostegno ai mercati» anche – o forse soprattutto – a dispetto delle condizioni di vita delle popolazioni civili e dei livelli di vita raggiunti nel dopoguerra. La fine del «modello sociale europeo» è stata decretata nelle stanze dei manager finanziari, prima di diventare operativa a Bruxelles o Francoforte.
Cosa significa questo per l’Italietta berlusconiana alle prese con la manovra? Che o si corrisponde alle «aspettative» degli «investitori istituzionali» – in soldoni: le grandi banche internazionali – o non si riescono più a piazzare i propri titoli di stato durante le «aste». È accaduto alla Grecia e all’Islanda, con risposte politiche ed esiti completamente diversi.
L’Italia ha in scadenza titoli per 130 miliardi da qui al 31 dicembre, senza contare la dinamica del fabbisogno. E nel 2012 – «anno Maya» del debito mondiale – deve rifinanziarsi per 250 miliardi (senza calcolare annessi e connessi). Una manovra abborracciata, con buchi evidenti, suonerebbe come una presa in giro agli occhi delle grandi banche. E gli interessi da garantire diventerebbero tali da stroncare qualsiasi velleità  di risanamento del debito pubblico. La Grecia sta ancora lì a dimostrarcelo.
Sentirsi too big too fail, dopo Lehmann Brothers, significa dimenticare che si è anche too big to save. Sarebbe meno traumatico dichiarsi indisponibili a restituire il debito contratto con l’estero – la «soluzione islandese» – piuttosto che giocare di furbizia con chi i bilanci, anche truccati, sa leggerli meglio di chi li scrive.


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