Colonie, Netanyahu è un bulldozer
GERUSALEMME. Il Segretario di stato Usa Hillary Clinton ritiene che la decisione di Israele di avviare la costruzione di 1.100 nuove case per coloni nella zona palestinese (Est) di Gerusalemme sia «controproducente». La Cina si dice «rammaricata» mentre Mosca è «molto preoccupata». L’Egitto da parte sua spara a zero sul governo israeliano. «Questa misura illegale rappresenta una nuova ed evidente sfida alla comunità internazionale», ha protestato il ministro degli esteri Mohammed Amr. Persino il governo Berlusconi, alleato stretto di Israele, ha espresso «forte delusione» per la decisione di autorizzare le nuove abitazioni a Gerusalemme Est.
Tante belle frasi per la critica rituale della colonizzazione dei territori occupati palestinesi. Ma nessuno farà un passo concreto per fermarla. A cominciare dagli Stati uniti. Nonostante sia totalmente illegale per la legge internazionale: una potenza militare occupante, Israele, non può insediare popolazione civile in un territorio occupato. Ma a Barack Obama che punta al secondo mandato la legalità internazionale interessa poco. Un sondaggio pubblicato ieri dal Jerusalem Post, rivela che la sua popolarità è in crescita tra gli israeliani ebrei (54% contro il 12% dello scorso maggio) e tra gli americani ebrei che lo avevano abbandonato in massa quando, all’inizio del suo mandato, aveva adottato una linea in apparenza più equilibrata nel Vicino Oriente. Un balzo in avanti frutto del discorso pronunciato da Obama all’Onu il 21 settembre contro l’adesione dello stato di Palestina. Qualcuno lo ha descritto come il discorso più schierato dalla parte di Israele mai pronunciato da un presidente Usa al Palazzo di vetro.
E quando si hanno le spalle ben coperte è normale continuare a fare ciò che si vuole. Il governo del premier israeliano Netanyahu ieri ha respinto le critiche sui suoi programmi d’espansione edilizia a Gerusalemme Est, spiegando che «non contraddice» nessuna precedente proposta di pace. «In ogni piano di pace posto sul tavolo negli ultimi 18 anni, Gilo faceva comunque parte della Gerusalemme ebraica», ha detto un alto funzionario israeliano all’agenzia stampa tedesca Dpa. «La proposta – ha aggiunto il funzionario – non contraddice in alcun modo il nostro impegno per una soluzione con due stati». Poco dopo il vicepremier e ministro dello sviluppo regionale, Silvan Shalom, ha aggiunto che Gilo «non è un insediamento, ma un quartiere di Gerusalemme». Una affermazione contraria alle risoluzioni internazionali che includono Gilo tra gli oltre 150 insediamenti colonici costruiti a Gerusalemme Est e in Cisgiordania dopo il 1967.
Intanto il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove incombe il veto statunitense all’adesione piena dello stato di Palestina, ieri ha formalmente deferito la richiesta presentata dai palestinesi alla commissione competente, in base all’articolo 59 della carta procedurale. La prima riunione della Commissione, che dovrà esprimere la sua raccomandazione al CdS prima di arrivare al voto, si terrà domani. Il rappresentante palestinese all’Onu, Riyad Mansour, ha confermato che la procedura «sta andando avanti passo dopo passo» e si è augurato che i 15 Stati membri del CdS «Approvino la richiesta inviandola all’Assemblea generale». Mansour, che non ha commentato la posizione americana, ha colto l’occasione per denunciare il piano israeliano per la realizzazione dei nuovi alloggi a Gilo. «Questa azione è chiara: Israele ha scelto di dire 1.100 volte “no” alla possibilità di riprendere i negoziati», ha affermato il rappresentante palestinese, facendo riferimento alla condizione più volte ribadita dal presidente dell’Olp e dell’Anp Abu Mazen di un ritorno al tavolo delle trattative solo dopo lo stop completo della colonizzazione. Immediata la reazione dell’ambasciatore israeliano all’Onu, Ron Prosor, che ha definito la questione un «pretesto» per non riprendere il negoziato. Sulla questione dello stato di Palestina è da notare la posizione del Vaticano. Dominique Mamberti, segretario per le relazioni della Santa Sede con gli Stati, martedì ha parlato all’Assemblea Generale dell’Onu riconoscendo come legittima l’aspirazione dei palestinesi e ha richiamato la risoluzione 181 delle Nazioni Unite, del 29 novembre 1947, sulla spartizione della Palestina, che, peraltro, sancisce lo status internazionale di Gerusalemme.
Ma se il fermento diplomatico è forte per la richiesta di adesione all’Onu dello Stato di Palestina, sul terreno non è cambiato nulla. I Territori occupati sono stati sigillati ermeticamente in occasione del Capodanno ebraico mentre nelle carceri israeliane è cominciato lo sciopero della fame di numerosi prigionieri politici palestinesi che protestano contro una serie «misure punitive» adottate di recente nei loro confronti. Fra queste: l’obbligo a vestire una tuta arancione da internati; l’obbligo di sottoporsi alla conta; ed il divieto di seguire i programmi televisivi di emittenti arabe. In prima linea nella protesta si trovano i detenuti del Fronte popolare per la liberazione della Palestina che chiedono la revoca dell’isolamento del loro leader, Ahmad Saadat, recluso in isolamento da ormai tre anni.
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