Chiamato in soccorso l’ex «invasore giallo» Ora gli vendiamo i gioielli di famiglia

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Ricordate cosa fece pochi mesi fa Luca Zaia? Andò di persona, nella veste di governatore del Veneto, a celebrare solennemente a Quinto di Treviso la «riconquista» di un bar che, rilevato da immigrati dello Zhejiang, era stato loro strappato da nuovi padroni veneti. Slogan: «Un gesto politico contro l’invasione “gialla” da tempo denunciata dal Carroccio». Bene: riconquistata l’osteria, spiega il Financial Times, offriamo a Pechino «partecipazioni strategiche nell’Eni e nell’Enel». Cioè nelle nostre imprese pubbliche più importanti, in un settore chiave come le materie prime, a livello planetario. Cin cin.
Quando si aprì la Seconda Repubblica e Silvio Berlusconi vinse le elezioni nel 1994, secondo il Fondo Monetario Internazionale, l’Italia aveva un Pil quasi doppio rispetto al gigante asiatico. Poi noi siamo cresciuti in diciassette anni del 94% e loro del 1.048: undici volte più di noi. Tutta colpa del Cavaliere? Neanche per sogno. Le ragioni sono più complesse, il ritardo l’ha accumulato un po’ tutto l’Occidente e del nostro declino, più netto di altri, sono responsabili in tanti, destra, sinistra, sindacati, imprenditori meno coraggiosi di quelli di altri Paesi.
C’è però un punto sul quale il nostro premier può sospirare, una responsabilità  tutta sua: mentre gli Schrà¶der e le Merkel, i Blair e i Cameron, gli Chirac e i Sarkozy e gli altri leader occidentali andavano e venivano da Pechino cercando di approfittare del boom della nuova superpotenza, lui non ci ha creduto mai davvero. Al punto che ancora pochi anni fa, come ricorda un’Ansa del 26 febbraio 2005, a un convegno dell’Istituto del commercio estero, suggeriva «agli imprenditori italiani di investire nei Paesi dell’Europa orientale piuttosto che in quelli emergenti come Cina e India» perché quei Paesi «non sono ancora dei mercati in cui noi possiamo pensare di investire quanto vorremmo». Infatti «il tasso di povertà  di quei mercati è tale da non consentire, se non a una piccolissima percentuale della popolazione, l’acquisto di prodotti del made in Italy».
I cinesi erano in quel momento al lavoro per costruire in 1236 giorni lo spettacolare ponte di Donghai (32 chilometri a 8 corsie: il ponte in mezzo al mare più lungo del pianeta) e poi 115 chilometri di metropolitana e altre infrastrutture fantastiche per le Olimpiadi di Pechino del 2008 e si erano già  lanciati con progetti per 50 miliardi di dollari verso l’Expo di Shanghai del 2010 che avrebbe segnato il loro trionfo. Uno sforzo colossale che dopo cinque anni li avrebbe portati a contare 875 mila nababbi con oltre un milione e mezzo di dollari liquidi e 180 milioni di clienti «affluent». E il Cavaliere invitava a investire nei «mercati più vicini come quelli dei Balcani, dell’Europa orientale, della Russia e della Bielorussia».
Un errore non piccolo, per chi si vanta d’essere «in assoluto il migliore capo di governo di tutti i tempi». Accompagnato da battute disastrose, come quella che gli scappò in un comizio a Napoli: «Leggetevi il Libro nero del comunismo e scoprirete che nella Cina di Mao i comunisti non mangiavano i bambini, ma li bollivano per concimare i campi». Immediata protesta ufficiale: «Siamo scontenti di queste affermazioni che sono completamente prive di fondamento». E lui: «Ma è storia… Mica li ho bolliti io i ragazzini». Fino a rattoppare in corsa: «Si tratta di cose avvenute 50 anni fa, in un momento in cui c’era l’esproprio delle campagne dei contadini che morivano in decine di milioni, e io credo che, per evitare anche epidemie, si potesse ben pensare di ricorre a dei fatti di questo tipo…» E via così: «Un funzionario mi dice: perché non vieni in Cina? Ti assicuro che in 5 anni diventerai ricco. Già  fatto, gli rispondo io, che sottolineo però come in un solo anno siano stati giustiziate 3700 persone. E che questo stato di cose non può continuare. E lui mi risponde: hai ragione, ma ti assicuro che almeno la metà  di loro era colpevole». Una nobile questione di principio? Magari! Pochi anni dopo, senza che il quadro dei diritti umani laggiù sia cambiato di una virgola, dirà  il contrario dichiarando (il giorno prima dell’assegnazione del Nobel per la pace a Liu Xiaobo, il dissidente detenuto nelle carceri cinesi!) il suo «apprezzamento ammirato» per «la politica dell’armonia» di Pechino e per i suoi governanti: «Come noi, sono fautori della politica del fare e preferiscono affrontare i problemi concreti piuttosto che irrigidirsi su questioni di principio».
Non bastasse ancora, gli rinfacciano i suoi critici, il Cavaliere non è mai andato una sola volta in Cina in visita ufficiale come premier. Non è vero, dirà  lui: due volte. Sì, ma solo perché non poteva farne a meno prima come presidente di turno europeo e poi per il vertice dell’Asem, l’Asia-Europe Meeting. Come capo del governo, per un bilaterale Cina-Italia tutto dedicato ai rapporti tra noi e loro, mai. Neppure per ricevere il testimone del passaggio dell’Expo da Shanghai a Milano, la sua città . Aveva promesso di andarci, diede buca. E all’ultimo momento toccò a Giorgio Napolitano precipitarsi per mettere una pezza che ci evitasse una figuraccia.
Per non dire delle polemiche, forse motivate ma certo non utili al dialogo culturale e commerciale, sugli argini invocati da Giulio Tremonti: «I cinesi ci stanno mangiando vivi, dobbiamo mettere dazi e quote». Dei titoloni de La Padania contro l’orda gialla e l’«economia fondata sullo schiavismo». Del sito internet rivolto ai turisti cinesi (quelli che faranno le vacanze all’estero nel 2015 saranno 130 milioni e spenderanno 110 miliardi) per larga parte scopiazzato da quello dell’Emilia Romagna e annunciato all’Expo di Shanghai con un power-point di poche diapositive tradotto affannosamente in cinese la notte prima della presentazione, bucata anch’essa da Michela Vittoria Brambilla. Che non ritenne necessario andare là  dove erano andati in visita, da Hillary Clinton (due volte) a José Manuel Barroso, 143 capi di stato mondiali.
Il risultato finale è nei numeri: alla faccia di Marco Polo, l’Italia è ventesima con un umiliante 0,4%, nella classifica dei Paesi che più mettono capitali (guadagnandoci) nel formidabile boom cinese dopo non solo i paradisi fiscali da cui muovono le grandi masse di denaro internazionale ma anche l’Olanda o l’Australia. E diciannovesima nella hit parade dei fornitori dopo la Thailandia, il Cile o l’Indonesia.
Dice il Financial Times che Vittorio Grilli, il direttore generale del Tesoro spedito in tutta fretta in Cina per convincere il Grande Drago a investire sull’Italia, si è mosso come meglio poteva. E c’è da crederci. Ma per incantare quel drago, dopo anni spesi così, avrebbe dovuto avere la bacchetta magica…


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