by Sergio Segio | 12 Settembre 2011 7:01
Ma oggi ho molti dubbi: in classe mi sembra di vivere fuori dal mondo reale. Penso a quelli della mia età , che fanno i conti con le cose fatte e le occasioni perdute. Quale futuro avremo?
Personalmente uscirò cambiata dalla lezione ricevuta dal confronto continuo, non sempre facile, con i compagni di classe, e con i diversi professori. Una abitudine a far gruppo che mi mancherà all’università , perché, a quello che ho sentito, almeno negli atenei italiani, l’impegno è soprattutto individuale. Né conterà più il sostegno dei genitori.
Voi che venite da un mondo fatto di maggiori sacrifici ci rimproverate di non essere disposti all’impegno. Vi assicuriamo che non è così. In cinque anni, nessuno ci ha regalato nulla: abbiamo studiato dalla matematica al greco antico, dalla storia alla filosofia, dalla biologia alla letteratura.
Cinque o sei ore in classe al mattino e almeno quattro ore per i compiti a casa. Tutti i giorni per nove mesi. Ma sono contenta perché consapevole che una preparazione come quella che dà il liceo statale italiano trova pochi riscontri nelle scuole di pari grado americane o anche europee.
Certo, leggo che le scuole che funzionano davvero sono minoranza, ma voglio dire che non mi sento di appartenere a una «casta inferiore», come spesso viene dipinta la popolazione scolastica italiana.
Sono dunque grata al liceo classico per avermi dato l’opportunità di una cultura generale vasta, ma mi rendo conto che certi punti, credo anche per un problema di costi, siano stati trascurati. Mi riferisco ai computer (non ci sono pc in classe ma una sala computer per tutta la scuola) e a un uso critico di Internet, che, anche se malvisto da alcuni professori «conservatori», domina nel mondo esterno.
Alcune facoltà richiedono un «patentino informatico» tra i requisiti per la laurea. Non si potrebbe anticipare questo passo alla scuola secondaria?
Un altro punto, cari professori, è il distacco tra l’aula del liceo e quello che sta fuori. Il liceo ci dà una «cultura universale» e noi ne siamo ben contenti.
Ma l’universo che abbiamo appreso (e amato) sui manuali e sui testi dei classici (da Tacito a Dante, da Svevo a Pavese) che ci avete spinto a leggere durante tutte le scorse estati sa un po’ di «orticello chiuso».
In un’ora di storia civica, poi, non si ha certo il tempo non dico per approfondire ma per sfiorare la cultura delle civiltà che stanno sfidando e mettendo in crisi la nostra.
Mi riferisco alla Cina e all’India e alla loro storia millenaria. Dovremmo avere gli strumenti per dialogare con le ragazze e i ragazzi di Shangai o di Bangalore, già oggi protagonisti di un mercato globale e nostri futuri concorrenti.
Alla fine di quest’anno dirò arrivederci ai miei compagni di Quinta B (anche se secondo la vecchia divisione del liceo classico, in vigore sino all’anno scorso, saremmo nella Terza F).
Dieci maschi e diciotto femmine: due o tre faranno giurisprudenza, molti, ho sentito, tenteranno di entrare a medicina, uno a lettere moderne, un paio faranno i test per la facoltà di economia e commercio, io forse mi iscriverò ad architettura. Come vedete, sono scelte molto diverse.
Una cosa ci accomuna: il futuro incerto. Negli anni Settanta, quando i nostri genitori uscivano dalla scuola secondaria, non avevano questo tipo di angoscia.
Chi andava a lavorare subito, chi si iscriveva all’università , nella certezza che avrebbe trovato un posto di lavoro. Oggi in Italia non è più così. E questa, forse, è la nostra preoccupazione più grande.
Un’angoscia che non pretende risposte certe al mille per mille, ma almeno un quadro più solido entro il quale muoversi. Come avviene all’estero.
* Liceo classico Tito Livio di Milano (Quinta B)
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