Cantiere privatizzazioni, cessioni Taglia debito per 35 miliardi

by Sergio Segio | 30 Settembre 2011 6:29

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MILANO — Se doveva essere una prova generale, è andata bene. Lo Stato mette in vendita o vuole valorizzare il proprio patrimonio, palazzi e partecipazioni, crediti e concessioni, totale 1.815 miliardi di euro dei quali 675 considerati «immediatamente fruttiferi»? Pronti: gli esponenti del mondo finanziario rispondono. Erano almeno in 150, ieri mattina, nella Sala del Parlamentino al Tesoro, per il Seminario sul patrimonio dello Stato fortemente voluto da Giulio Tremonti: la «grande riforma per il calo del debito», l’ha chiamata il ministro dell’Economia. Banchieri e gestori, analisti e capi dei ricchi fondi di private equity, sindaci e amministratori locali penalizzati dai minori trasferimenti e a corto di risorse: tutti interessati all’avvio del percorso italiano delle privatizzazioni, la prima tappa dello Stato verso il mercato. «Oggi abbiamo aperto il grande libro del patrimonio pubblico — ha detto Tremonti —. L’abbiamo fatto per la prima volta, non era mai stato fatto, e abbiamo scoperto che nell’attivo del bilancio dello Stato c’è un numero uguale a quello del passivo»: 1.815 miliardi «di manomorta pubblica da cui creare ricchezza», secondo Tremonti, contro 1.843 di debito pubblico. Ritorno agli anni 90? Presto per dirlo, ma la macchina del Tesoro ha dato il via e il mondo della finanza (per ora) l’ha seguita, in opportuna coincidenza con l’invito alle privatizzazioni della Bce. Dalle cessioni — spiega il ministero — si possono ricavare per la riduzione diretta del debito 35-40 miliardi, di cui 25-30 miliardi dalla vendita degli immobili e altri 10 dalla cessione dei diritti per le emissioni inquinanti (CO2). Al tavolo i relatori Edoardo Reviglio, capo economista alla Cassa Depositi e Prestiti, e Stefano Scalera hanno presentato numeri e spaccati. A presiedere i lavori, con Tremonti, c’erano Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e Vittorio Grilli, direttore generale di via XX Settembre. Era atteso il premier Silvio Berlusconi, ma non si è visto. Letta lo ha giustificato: «Il presidente si scusa ma è assediato da impegni vari. Sono giornate intense, per certi versi turbolente. Vi ricordo che è anche il suo compleanno». Presenti invece i ministri della Difesa, Ignazio La Russa, e degli Affari Regionali, Raffaele Fitto. E l’establishment delle pubbliche partecipazioni.

Per la Cassa Depositi e Prestiti c’erano il presidente Franco Bassanini e l’amministratore delegato Giovanni Gorno Tempini; per il fondo F2i, interessato alla Sea di Malpensa e alla Milano Serravalle, l’amministratore delegato Vito Gamberale; per le Poste Italiane, ormai promosse a banca di Stato dopo l’acquisizione del Mediocredito Centrale, l’amministratore delegato Massimo Sarmi; per il neonato Fsi, il Fondo strategico sempre della Cassa per le aziende del made in Italy, il neoamministratore delegato Maurizio Tamagnini.

E c’erano i rappresentanti degli enti dai grandi patrimoni immobiliari: il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, e dell’Inail, Marco Fabio Sartori; c’era il direttore generale di Confindustria, Giampaolo Galli; c’era il sindaco di Torino, Piero Fassino. Infine, quel che più conta, tutta la finanza: il presidente di Assogestioni, Domenico Siniscalco; il responsabile in Italia del megafondo Carlyle, Marco De Benedetti; e i banchieri, in massa: delle italiane Intesa Sanpaolo e Mediobanca; delle banche d’affari Jp Morgan, Morgan Stanley e Nomura; ma soprattutto delle straniere: Bnp Paribas, Crédit Agricole, Deutsche Bank, Credit Suisse, Royal Bank of Scotland.

Sorpresa? No, se si guarda l’offerta: sono 13.111, dice il rapporto, le società  nelle quali il pubblico ha una quota (dati al 2009). I soli immobili dello Stato valgono 500 miliardi e il 10% è considerato già  vendibile, «non usato». Le partecipazioni statali valgono almeno 44,8 miliardi e, di questi, 17,3 sono ancora nelle quotate Enel, Finmeccanica ed Eni. La privatizzazione sarà  nel medio periodo, ma è un processo ineludibile, ha detto lo stesso Fassino, perché «i trasferimenti di denaro pubblico saranno sempre meno, o le sappiamo valorizzare gestendole bene o dobbiamo vendere». Il mondo della finanza era lì apposta: il rendimento medio delle partecipate di Stato è solo dell’1,8%.

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