Caccia ai neri: terrore e stupri

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TRIPOLI. «Guardate come viviamo. Vi sembra un modo degno di esseri umani?». Osas Omogidane è seduto su un barile di latta e gioca a dama con un amico su un tavolaccio di plastica. I due muovono le pedine con gesti meccanici. «Siamo qui per ammazzare il tempo, non abbiamo nulla da fare», dicono con un sorriso rassegnato. Intorno a loro, altre decine di uomini e donne, tutti nigeriani. Stanno sbattuti per terra su materassi e teli stesi tra le barche. Hanno i bagagli vicino a loro. Qualche barile pieno d’acqua. Pentole per cucinare.
Siamo a Mehya, 27 chilometri a ovest di Tripoli. In un porticciolo in disuso, si è creata nelle ultime due settimane – da quando cioè la guerra è arrivata nella capitale – una gigantesca baraccopoli improvvisata. O più precisamente una barcopoli: gli immigrati in fuga dai combattimenti e dai rastrellamenti dei ribelli a caccia di mercenari filo-Gheddafi si sono riparati sulle barche abbandonate o all’ombra di queste. Nel porto ci sono circa mille persone. Vengono tutte dall’Africa occidentale: sono nigeriani per lo più, ma anche ghanesi, togolesi, ivoriani, maliani. «Questo è un angolo di Africa», ride Omogidane. «Qui stiamo insieme. Ma certo non siamo al sicuro».
Le centinaia di immigrati sono arrivati alla spicciolata, grazie a un passaparola che li ha spinti a riunirsi per evitare rappresaglie. «Io sono qui da dieci giorni», racconta l’ivoriano Issa Koné, ventisette anni di cui tre passati in Libia. «Sono entrati a casa mia con un mitra e mi hanno tolto tutto. A quel punto ho deciso che in città  non stavo più al sicuro. Così sono venuto qui». Gli africani riuniti a Mehya sono scampati alle retate che vengono condotte in città  dai towar, i «giovani rivoluzionari» che hanno preso il controllo della capitale. La paranoia del mercenario porta i ragazzi armati ai posti di blocco a fermare ogni straniero dalla pelle nera e interrogarlo. Quando questo non ha i documenti – o il timbro d’ingresso sul passaporto – viene portato in commissariato per accertamenti. Se si considera che la gran parte degli immigrati africani entravano in Libia illegalmente, si capisce come la misura di fatto equivale a una specie di arresto di massa.
Viktor Adiun l’ha scampata per un soffio. Venendo verso il porto, è stato fermato a un check point. Lo hanno interrogato. Poiché parla arabo, è riuscito a spiegare che era solo un lavoratore, che stava da quattro anni in Libia e che nella sua vita non ha mai imbracciato un fucile. Lo hanno lasciato andare, ma racconta di aver passato un brutto quarto d’ora. Oggi questo nigeriano di 28 anni, che al paese ha lasciato una moglie e due figli, è disperato. «Prima avevo un lavoro, mandavo i soldi a casa per mantenere la famiglia. Ora vivo qui sotto questa barca. Che posso fare?».
La vita in Libia per gli immigrati africani non è mai stata facile. Anche all’epoca di Gheddafi, erano sottoposti a retate, arresti improvvisati, soprusi di ogni tipo da parte delle forze di sicurezza e della polizia. Spesso non venivano pagati per i lavori che facevano, o venivano rinchiusi in centri di detenzione per periodi indefiniti. «Ma oggi la situazione è peggiorata», sottolinea Adiun. «Questi ribelli si definiscono combattenti per la libertà , ma in realtà  sono dei banditi. Era meglio sotto Gheddafi». Koné non è completamente d’accordo. «I ribelli e Gheddafi? Sono come l’acqua calda e l’acqua fredda. Se butti la prima sul fuoco, si spegne. Se butti la seconda, si spegne lo stesso», dice per sottolineare il suo pensiero. Che poi spiega meglio: «I libici sono razzisti. Non si considerano africani e ci trattano come bestiame. Non c’è alcuna differenza tra Gheddafi e questi cosiddetti rivoluzionari».
La differenza sostanziale tra ieri e oggi è che prima gli africani erano discriminati ma riuscivano a lavorare, oggi sono solo discriminati. «Non c’è più lavoro. Molti di noi vengono arrestati in strada. Anche se la situazione dovesse stabilirsi, credo che non ci sarà  più spazio per noi in questo paese. In questo momento, nessuno ci affitterebbe casa. Gli africani sono identificati come pro-Gheddafi, questo è tutto», dice ancora Adiun.
Gli uomini e le donne che si sono rifugiati nel porticciolo di Mehya sono come intrappolati. I funzionari dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) sono venuti a proporre loro rimpatri assistiti nei rispettivi paesi d’origine. Ma pochi sono intenzionati ad accettare. «Come faccio a tornare a casa a mani vuote? Che cosa dico a mia moglie?», domanda Adiun. «Come posso tornare vestito di stracci dopo aver passato tre anni in Libia?», gli fa eco Koné.
La situazione al campo è di assoluta emergenza. Gli immigrati riescono a sopravvivere solo grazie al cibo che viene regalato loro da alcuni libici di buon cuore e alla possibilità  di approvvigionarsi in acqua a una fonte a poca distanza. «Ma il problema principale è la sicurezza», dice Adiun. «La notte vengono uomini armati e sparano all’impazzata. Poi vengono a cercare le donne, le prendono in disparte e le violentano». Le accuse di Adiun sono confermate da tutti gli altri, anche se nessuna donna accetta di parlarne apertamente.
Mentre Adiun e i suoi compagni raccontano come si è svolto lo stupro di una donna la sera prima, arriva al porto sgommando su un pick up un gruppo di ragazzetti. Scendono dalla macchina e si dirigono verso una coppia seduta all’ombra di una barca. Li circondano. Iniziano a pizzicare la donna sul seno. Poi uno di loro prende tra le mani la testa dell’uomo. Dopo questa scenetta se ne vanno. «Mi hanno detto che volevano la donna», racconta subito dopo l’uomo. «Gli ho detto che è mia moglie. Mi hanno risposto che a loro non importava. Temo che torneranno stanotte. Io non so che fare. Non posso battermi, questo non è il mio paese. Qui non ho diritti». La donna intanto è andata via. E’ rientrata sotto la tenda all’ombra della barca, in attesa del tramonto e di una notte che si annuncia più brutta delle altre.


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