by Sergio Segio | 18 Settembre 2011 6:54
Arrivano sms e e-mail dalle barricate serbe disseminate nel nord del Kosovo: «Il mondo deve sapere», «No pasaran», «Fate qualcosa…noi da qui non ci muoviamo». Ma a chi volete interessi qualcosa del sud-est europeo, cioè dei Balcani, dove le ferite delle troppe guerre restano aperte, ora che esplode la crisi economica dell’Eurozona? Eppure il fatto che la miccia della guerra resti accesa in un’area irrequieta del vecchio continente, la dice lunga su come l’Europa sia diventata «Unione», sui processi distruttivi che ha alimentato per «costruirsi» – come i riconoscimenti delle indipendenze nei Balcani nonostante fossero pericolosamente proclamate su base etnica. E che ancora alimenta, divisa. Parliamo della ferita aperta del Kosovo, che ha visto questo fine settimana una tensione al limite del «bagno di sangue», che ha spaccato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite costringendo il segretario della Nato Rasmussen a correre a Pristina. Con scene di preparativi di guerra e di rivolta. Il dossier che è stato aperto è: come s’inventa una frontiera.
Il blitz militare è quello condotto dal premier kosovaro-albanese Hashim Thaqi. La rivolta è quella delle minoranze serbe, sostenute stavolta dal governo di Belgrado, quei pochi civili che ancora rimangono e che si ribellano all’indipendenza autoproclamata da Pristina. La disputa è sui confini a partire dai poteri doganali. Riconoscerli da parte della Serbia vorrebbe dire accettare che il Kosovo non è più parte del territorio serbo. Impossibile per Belgrado che ha inserito nella propria costituzione, per volontà esplicita del presidente Boris Tadic, europeista e filoccidentale doc, l’appartenenza storico-culturale fondativa del Kosovo alla Serbia.
La scena è di una battaglia non conclusa. In tutto il nord del Kosovo, dove i serbi sono più numerosi – gli altri vivono in enclave, nel terrore, sotto protezione della Kfor-Nato, come capita ai monasteri ortodossi dei quali ben 150 sono stati distrutti nei dodici anni di amministrazione Onu-Nato – migliaia di giovani hanno eretto centinaia di blocchi stradali per protestare contro l’annunciata presa di controllo da parte delle autorità di Pristina dei due posti di dogana di Jarinje e Brnjak, barricate che hanno interrotto tutte le strade e le aree fra Kosovska Mitrovica e Zvecan, fra Mitrovica e Ribarici, intorno a Leposavic e in molte altre località della parte nord del Kosovo, a maggioranza di popolazione serba che rifiuta l’autorità di Pristina. Inoltre le barricate a Kosovska Mitrovica dividono il ponte sul fiume Ibar che separa la città in una zona serba (a nord) e in una albanese (a sud). La protesta è scattata alla scadenza del mandato della Kfor-Nato che aveva assunto il controllo dei due posti di frontiera dopo gli scontri del 25 e 26 luglio scorsi, quando il governo di Hashim Thaqi aveva forzato una prima volta la situazione inviando forze speciali ad occupare i due posti di frontiera e un poliziotto kosovaro albanese era rimasto ucciso, mentre migliaia di giovani serbi avevano incendiato il posto di Jarinje.
Venerdì, nonostante la massiccia protesta, le forze speciali e i doganieri kosovaro-albanesi, con l’aiuto militare della missione Eulex hanno ripreso il controllo dei due posti di frontiera di Jarinje e Brnjak. Gli agenti e i doganieri kosovari e europei sono arrivati poco dopo le 8 trasportati con elicotteri, a causa dei blocchi stradali dei serbi. Ma la protesta ai bordi del presunto confine con la Serbia rimane, il nord del Kosovo resta bloccato e l’area è presidiata da militari della Kfor-Nato in assetto antisommossa. La popolazione serba trascorre le notti sulle barricate e ai posti di blocco che hanno ulteriormente rafforzato e intensificato ieri, paralizzando l’intera regione e la possibilità di movimento dei militari Nato. La situazione è molto tesa, ma finora ci sono stati solo fitti lanci di sassi. La miccia di un nuovo conflitto è accesa.
Per Pristina l’iniziativa è la conseguenza dell’accordo sui timbri doganali raggiunto con Belgrado nell’ultima sessione di negoziati il 2 settembre scorso a Bruxelles. Belgrado, che considera la «frontiera» solo una linea amministrativa, ritiene invece che in quella sede non si è affrontato in alcun modo il problema di chi debba presidiare la «frontiera nord» del Kosovo. Lo conferma Edmond Mulet, capo del Dipartimento peacekeeping dell’Onu, presente ai colloqui, che ribadisce che nell’accordo del 2 settembre a Bruxelles è stato sì risolto il problema dei timbri doganali con l’accettazione della formula neutra «Dogane del Kosovo», ma non vi è stata alcuna intesa fra Belgrado e Pristina sul dispiegamento di agenti e doganieri ai due posti di Jarinje e Brnjak.
Stavolta si sono mobilitate davvero tutte le istituzioni della Serbia. Il governo e il presidente Boris Tadic hanno chiesto la convocazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu e il ministro degli esteri Vuk Jeremic ha nuovamente ammonito che se vi saranno nuove violenze nel nord del Kosovo la responsabilità cadrà su coloro che hanno deciso l’uso della forza per attuare il piano. Addirittura anche il ministro serbo per le questioni del Kosovo, Goran Bogdanovic, si è unito ai dimostranti partecipando di giorno e di notte al blocco di Jarinje. Pristina alla fine ha annunciato la fine dell’embargo che aveva decretato sulle merci provenienti dalla Serbia, che a dire il vero in questo momento passano non da Jarinje e Brnjak, che sono ancora chiusi, ma dal valico di Merdare, molto più a sud. La situazione è di scontro aperto, con i blocchi stradali ad opera dei serbi, che sembrano voler proseguire la protesta a oltranza, cosa che fa prevedere conseguenze pesanti sulle forniture di beni di prima necessità , visto che la maggioranza dei beni che arrivano in Kosovo viene importata ancora dalla Serbia. Il premier kosovaro, Hashim Thaqi è sfrenato e irriducibile. Fonti dirette delle Nazioni unite da Pristina fanno intendere che questo suo protagonismo è collegato all’attivazione delle indagini internazionali che lo chiamano direttamente in causa sull’orrore del traffico di organi espiantati a civili serbi sequestrati dalle milizie Uck che erano ai suoi ordini nel 1998 e ancora nel 1999. Perché a fine agosto la missione Eulex ha avviato l’inchiesta, nominando a capo del team investigativo il procuratore americano John Clint Williamson, con apprezzamento di Belgrado. Anche se la Serbia, incredibilmente sostenuta dall’ex procuratore del Tribunale penale dell’Aja per i crimini nell’ex Jugoslavia Carla Del Ponte, insiste per una commissione d’inchiesta dell’Onu e teme che Eulex, legato come mandato al solo Kosovo, non abbia i poteri necessari per indagare anche in Albania – nel nord albanese era una delle prigioni per espianto di organi – e quindi alla fine insabbi ogni cosa, nonostante l’affare sia difficilmente rimuovibile dopo il rapporto-denuncia di Dick Marty, incaricato del Consiglio d’Europa per i diritti umani, che chiama in causa sempre Hashim Thaqi.
Così il premier Thaqi non ha perso tempo, davanti al governo ha definito l’occupazione delle dogane «un successo», «l’inizio dell’instaurazione della legge e dell’ordine anche in quella parte del paese». E, accusando Belgrado di destabilizzare «uno stato sovrano» ha ricordato che Pristina opera in stretta collaborazione con Eulex e Kfor-Nato e con il pieno sostegno degli Stati uniti. Già , come dimenticare che l’unica realtà «produttiva» del Kosovo è la mega-base militare statunitense di Camp Bondsteel, presso Urosevac, la più grande base americana d’Europa. E da Bruxelles il portavoce della Ashton ha appoggiato l’iniziativa di Thaqi come «fine delle istituzioni parallele serbe del nord». Ma va ricordato che l’indipendenza del Kosovo, legittimata recentemente solo da un parere – non vincolante però – della Corte dell’Aja che sostiene che quella secessione «non lede il diritto internazionale», divide invece l’Unione europea (Spagna, Grecia, Slovacchia, Romania e Cipro sono contro) che ha deciso la missione Eulex non per inventare frontiere ma per implementare democrazia e legalità in Kosovo, tra le aree più corrotte, violente e più contrarie alle minoranze del mondo secondo l’Agenzia-diritti umani dell’Onu; inoltre è una indipendenza che spacca le stesse Nazioni unite che non hanno mai riconosciuto il nuovo stato, accreditato solo da 80 paesi sui 193 dell’Onu. Che il Consiglio di sicurezza riunito d’urgenza venerdì si è nuovamente diviso con Russia e Cina contrarie all’iniziativa di forza di Pristina perché «rischia un nuovo bagno di sangue». Senza dimenticare che ogni organismo internazionale in Kosovo, l’Onu-Unmik e la Kfor-Nato, derivano la loro legittimità solo dal Trattato di pace del giugno 1999 di Kumanovo che pose fine alla prima guerra «umanitaria» – che tanta fortuna ha avuto poi nella globalizzazione – dell’Alleanza atlantica all’ex Jugoslavia di Milosevic. Stabilendo che sarebbero entrate in Kosovo truppe Nato ma che la regione apparteneva a Belgrado, alla cui autorità doveva essere restituita dopo sei anni di occupazione. Questo votò il Consiglio di sicurezza dell’Onu nella risoluzione 1244. E invece, dpo due anni di finte trattative con Martti Ahtisaari, ex presidente finlandese, nel febbraio del 2008 il Kosovo si proclamò unilateralmente indipendente con l’appoggio dichiarato dell’America di George W. Bush.
Ora il clima è esplosivo. Anche per la leadership della nuova Serbia che insiste ad accelerare il cammino verso la Ue, ma ora si trova davanti il macigno delle elezioni politiche della prossima primavera, il paese è già in campagna elettorale e si alzano le voci pericolose degli ultranazionalisti ma anche quelle più credibili del Partito democratico serbo dell’ex presidente Vojslav Kostunica. Senza dimenticare che Irinej, il nuovo patriarca della Chiesa ortodossa serba era in questi giorni nel nord del Kosovo e ha lanciato una «preghiera collettiva» in difesa dela terra serba e della pace. Ieri sera Belgrado, temendo il peggio, ha presentato una proposta a Bruxelles per risolvere la crisi delle dogane «con il dialogo». «La proposta di Belgrado non prevede la presenza di poliziotti e doganieri kosovaro-albanesi che non sono mai stati lì in servizio», ha annunciato Borislav Stefanovic, capo della delegazione serba ai negoziati con Pristina. Mentre scriviamo da Bruxelles non è arrivata nessuna risposta.
Ma è facile, purtroppo, immaginare quale sarà . «I blocchi stradali dei serbi impediscono la libertà di movimento, questo non è in linea con le aspirazioni all’integrazione nella Ue», ha detto ieri il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Mark Toner. Del resto il cancelliere tedesco Angela Merkel, a Belgrado il mese scorso, aveva ammonito che, per avere lo status di paese candidato, la Serbia deve migliorare i rapporti con Pristina e smantellare le sue strutture parallele nel nord del Kosovo, vale dire accettare di perdere il Kosovo. Non è bastata a quanto pare l’unica condizione che veniva posta finora, quella dell’arresto di tutti i criminali di guerra serbi all’Aja. No, alla Serbia viene imposto un diktat mai usato con nessuno degli altri paesi aderenti: per essere ammessa nell’Ue deve rinunciare ad una quarto del proprio territorio.
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