Banche europee malate di diffidenza il credit crunch accelera il contagio

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Un default greco sarebbe una sciagura. La banca d’investimenti americana Merrill Lynch calcola che l’effetto complessivo sarebbe un taglio alla crescita, sufficiente a spingere l’economia europea in recessione.
Ma, anche senza bancarotta ad Atene, l’Europa – e, in particolare, i suoi paesi più deboli, Italia in testa – rischia di rimanere prigioniera di una tenaglia, in grado di soffocare comunque l’economia. Da una parte, l’impatto dei programmi di austerità  e sacrifici che il governo italiano, come altri, ha varato per fronteggiare la crisi del debito pubblico. Dall’altro – raddoppiando l’effetto recessivo – il cappio di una stretta al credito da parte di banche, che fanno fatica a finanziare i prestiti alle imprese, perché coinvolte esse stesse nella crisi dei titoli pubblici europei. Per ora, i segnali di una vera e propria stretta sono ancora sparsi e soltanto indicativi.
Ma la sua premessa – la gelata del credito, quando i soldi smettono di circolare anche tra le banche – è già  sotto gli occhi. Ieri, per il terzo giorno consecutivo, sui mercati internazionali, un indicatore cruciale per misurare la riluttanza delle banche a prestarsi reciprocamente denaro (ovvero il differenziale fra il tasso interbancario europeo a tre mesi e i fondi ritenuti sicuri, a 24 ore) ha segnato un record per gli ultimi 30 mesi: di fatto, gli istituti di credito preferiscono depositare i loro fondi presso la Bundesbank, a tassi stracciati, piuttosto che aprire un credito ad un’altra banca. Il record significa che gli istituti non erano così sospettosi l’uno dell’altro dal marzo 2009, il periodo immediatamente successivo al crac della Lehman, che diede inizio alla crisi finanziaria di cui stiamo scontando i postumi.
Allora, le banche avevano praticamente sigillato le loro casseforti, prosciugando la liquidità  finanziaria del sistema. Oggi, la situazione non è così grave. Soprattutto, perché le banche centrali sono intervenute con decisione a pompare fondi verso gli istituti di credito. Anche un falco della moneta, come il presidente della tedesca Bundesbank, Jens Weidmann, non si è tirato, ieri, indietro, e ha voluto ricordare che la Banca centrale europea «ha già  mostrato nel passato di essere in grado di fornire liquidità  a lungo termine, se necessario». Ma assicurare alle banche il minimo vitale non è la stessa cosa di rianimare l’economia.
Soprattutto se gli istituti di credito hanno problemi di capitale e di finanziamento. Negli ultimi anni, le banche europee hanno realizzato ampi guadagni, acquistando titoli di Stato e depositandoli presso la Bce, in garanzia di prestiti della stessa banca centrale: in questo modo lucravano la differenza fra i rendimenti dei titoli e il tasso pagato a Francoforte. Con la crisi greca, questa strategia si è ritorta contro di loro. Si trovano le casse piene di titoli dal valore dubbio (greci e non solo), che pesano sulla solidità  dei loro bilanci. E’ qui che un default greco e un eventuale contagio ad altri paesi, tagliando le voci dell’attivo, potrebbe avere gli effetti più devastanti. Per questo, da oltre Atlantico, l’Fmi e il governo Usa insistono per una massiccia ricapitalizzazione (nell’ordine di 200 miliardi di euro) delle banche europee. Ma l’Europa non la ritiene necessaria. Anche ieri, da Bruxelles, la Commissione ha ripetuto che i capitali delle banche sono a posto e che anche i 16 istituti più fragili potranno procedere alla ricapitalizzazione nei tempi previsti, senza accelerazioni.
Tuttavia, anche gli istituti che non hanno bisogno di ricapitalizzazione, perché l’hanno già  fatta, trovano difficoltà  a finanziarsi. Secondo uno studio del Peterson Institute, da qui all’estate 2013, le banche europee devono rinnovare prestiti a breve per quasi 5 mila miliardi di euro, una cifra che vale metà  del Pil europeo. Per le due maggiori banche francesi, si tratta di debiti che equivalgono al 6 per cento del Pil francese. Per i due maggiori istituti italiani – Intesa e Unicredit – i debiti a breve assommano al 9 per cento del Pil italiano. Per le due più grandi banche tedesche, questi debiti arrivano al 17 per cento del prodotto interno lordo tedesco. Sono finanziamenti pesanti che dovranno essere pagati a tassi superiori a quelli del passato. Soprattutto per le banche italiane. La corsa dello spread fra Bund tedesco e Buoni del Tesoro italiani non va a colpire solo il costo degli interessi della finanza pubblica. «Se il rischio Paese viene prezzato come in questi giorni – ha osservato ieri il presidente dell’Abi, l’associazione delle banche italiane, Giuseppe Mussari – è difficile credere che non abbia un riflesso sulle relazioni creditizie». Infatti, declassato il rating del Tesoro italiano, Standard&Poor’s ha subito provveduto ad abbassare anche quello delle maggiori banche del paese. Questo vuol dire che, come lo Stato, gli istituti di credito si trovano a pagare di più i propri debiti. Solo rispetto al giugno scorso, è un 1 per cento in più. Ammesso che siano disponibili, le imprese troveranno comunque i loro prestiti più cari.


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