Africa senza africani Ai turisti piace così
LAMPEDUSA (AG) . «Abbiamo scritto alle autorità competenti esprimendo preoccupazione per l’avvenuto respingimento. La nostra posizione rimane la stessa: no ai respingimenti», ci dice Laura Boldrini, portavoce dell’Acnur, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di rifugiati. La richiesta è molto chiara: «Chiediamo semplicemente l’accesso al territorio, la procedura di identificazione, l’accesso alla procedura di asilo e – in caso negativo – il provvedimento di respingimento. Anche se sappiamo che i tunisini sono spesso migranti economici, l’esame deve comunque essere individuale poiché la legge non ammette provvedimenti collettivi di allontanamento dal territorio».
Qualche giorno fa un singolare episodio a Lampedusa ha svelato che l’Italia ha ripreso la pratica illegale dei respingimenti collettivi. Una motovedetta della Finanza entra in porto e riprende il mare a tutta velocità . Sul molo un cordone di polizia tiene indietro gli operatori delle associazioni umanitarie, con l’eccezione di un medico dell’Ordine di Malta che sale sui natanti e constata che ci sono sette persone in precarie condizioni fisiche.
In mare aperto, centoquattro migranti venivano invece trasferiti a bordo di una motovedetta tunisina. Tra i sette malati, due donne, un minore, un uomo in barella e un paraplegico con la carrozzina. Un evento di soccorso – la barca era in avaria e imbarcava acqua – che diventa un respingimento dopo un ordine che arriva dal Viminale. Perché si tratta di pratiche illegali? Uno straniero ha il diritto di accedere alla pratica dell’asilo, poi sarà la commissione italiana a decidere se accordarlo o meno. Il nostro governo è già sotto processo per i respingimenti del 2009, quando i profughi delle guerre del Corno d’Africa furono ricacciati in Libia in seguito agli accordi tra Berlusconi e Gheddafi. Il procedimento è in pieno svolgimento per violazione della Convenzione di Ginevra e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Si attende la sentenza.
Anche in questo caso sono stati stipulati accordi bilaterali, ma con il governo provvisorio tunisino, mai legittimato dalle urne. I tunisini sono ritenuti «migranti economici», dunque non potrebbero accedere all’asilo. Ma per legge l’esame deve avvenire sulla base della storia individuale e non per provenienza etnica. E poi non è detto che su una barca che viene dalla Tunisia ci siano solo tunisini. Nel corso del respingimento citato, infatti, un uomo si è gettato in mare durante il trasbordo, appena ha capito che stava per tornare indietro. Nella caduta si è ferito alla caviglia. È stato soccorso e l’unità della Marina Militare è rientrata alle cinque del mattino. Il profugo ha poi dichiarato di essere saharawi, dunque è un potenziale richiedente asilo che potrà accedere alla procedura solo perché è sfuggito al respingimento tuffandosi in piena notte. Il popolo del Sahara occidentale lotta per l’indipendenza già dalla decolonizzazione spagnola ed è perseguitato dal Marocco che non riconosce il piccolo stato tra deserto e oceano Atlantico.
Se arrivano da ovest sono tunisini
Per tutti gli altri il diritto di chiedere asilo è stato cancellato da uno sguardo. Il personale che partecipa ai soccorsi ci spiega cosa succede in questi casi. Se arrivano ordini dall’alto si procede al respingimento. «Quanto arrivano da ovest supponiamo che siano tunisini. Dalla carnagione si riesce intuitivamente a capire se sono maghrebini. Distinguiamo i tratti somatici dei somali da quelli dei tunisini». Ma come riconoscere un saharawi? La vera identificazione si può fare solo a terra. E così un’occhiata – o una telefonata in ritardo – decide il destino delle persone.
Tutte le fonti interpellate – dagli operatori umanitari ai testimoni, fino ai protagonisti del soccorso – ci confermano il contrasto tra leggi del mare (l’obbligo di salvare vite umane) e ordini “romani”, in questo caso giunti con un ritardo che ha permesso almeno di sbarcare i migranti visibilmente malati. È palpabile la tensione tra il dovere di obbedire e l’etica di uomini che hanno scelto come mestiere il salvataggio in mare.
Il respingimento del 21 agosto non è un caso isolato. Da mesi viene attuata questa politica. La barca viene solitamente individuata dai pattugliatori che quotidianamente scandagliano il mare. Un lavoro costante che coinvolge le unità della Finanza, della Capitaneria e quelle della Marina Militare in missione presso le coste tunisine (due navi a rotazione e un aereo Atlantic). I comunicati ufficiali dello Stato maggiore della Difesa parlano genericamente di «sorveglianza per l’emergenza immigrazione in applicazione dell’intesa italo-tunisina». Se ci sono segnali di pericolo (nave alla deriva o che imbarca acqua) si attiva la procedura Sar (Search and Rescue), per cui i migranti vengono soccorsi. In caso contrario, si trasbordano i migranti sulle navi della Marina e quindi sulle motovedette tunisine.
«Non saprei dire quanto i respingimenti frenano il flusso di tunisini», ci dicono. «Dal Ministero dell’Interno ci sono delle questioni di ordine pubblico. Se prevedono che queste persone non devono venire, perché ci sono dei motivi sopra di me, solitamente ci danno delle indicazioni». Ordini che permettono a Maroni – come avvenuto qualche giorno fa al Meeting di Rimini – di vantarsi dei numeri (13 mila rimpatri in 6 mesi, ma i dati sono evidentemente falsati dai respingimenti) e presentarsi alla base leghista come freno all’immigrazione. Dal primo al 21 agosto sono sbarcate a Lampedusa 4.637 persone dalla rotta libica e appena 497 dalla Tunisia. Con condizioni meteomare ideali e una distanza di poche miglia, si tratta di un numero ridicolo.
Un’occhiata in mezzo al mare
Lo scorso 2 agosto il Parlamento ha approvato un decreto proposto da Maroni che permette la detenzione in un Cie (Centri di identificazione ed espulsione) fino a un anno e mezzo. Dunque, per conoscere l’identità di un migrante possono bastare pochi minuti in mezzo al mare e un’occhiata. Oppure servono 18 mesi in una struttura detentiva e una sequenza interminabile di documenti che viaggiano dai consolati. Molti “ospiti” dei Cie hanno subito condanne penali, dunque dovrebbero essere già abbondantemente identificati. E invece vengono ulteriormente trattenuti.
A Lampedusa sono arrivati e arrivano centinaia di giornalisti da tutto il mondo. La ricerca e la verifica delle notizie, nel corso del tempo, è diventata sempre più difficile. È praticamente impossibile parlare coi migranti rinchiusi nel centro di accoglienza, da cui teoricamente potrebbero uscire. La struttura è protetta dai corpi militari e da un check point come fosse la più segreta delle basi militari. Nei centri per migranti non si entra in seguito alla circolare di marzo che permette l’ingresso solo alle associazioni umanitarie.
«Stanno rinchiusi perché così le procedure sono più rapide. Non abbiamo niente da nascondere», ci dicono i responsabili degli enti gestori. Sta di fatto che nessuno sa cosa succede dall’altra parte delle sbarre e vengono fuori solo le notizie più gravi, come la sassaiola dei giorni scorsi messa in atto dai tunisini che si oppongono al rimpatrio. I migranti erano usciti dal centro e avevano inscenato una protesta al molo. Sono stati riaccompagnati dentro, dove hanno continuato la rivolta.
Nell’isola nessuno rilascia dichiarazioni, né tra i corpi militari né tra le organizzazioni umanitarie. Tutti parlano a livello informale, anche per ore, e poi ci rimandano all’ufficio stampa nazionale, l’unico abilitato a parlare. Gli effetti possono essere curiosi. Da Roma, l’ufficio stampa della Guardia di Finanza conferma il respingimento ma smentisce la manovra al porto, che però è confermata dalle riprese effettuate dagli inviati di Sky e dalle foto di un free lance. «Io le dico quello che so da Roma… So quello che è stato riportato dai miei colleghi…». Quelli che in loco hanno visto non possono parlare, coloro che sono abilitati a parlare non hanno potuto vedere.
A Lampedusa la verità è nascosta da una ragione di Stato che si confonde con gli interessi di pochi politici. La legalità è sospesa e sono in vigore le procedure di emergenza. Decine di camionette militari e posti di blocco garantiscono la tranquillità dei turisti lombardi e veneti e l’invisibilità dei migranti. I militari sorvegliano persino il deposito dei barconi degli immigrati.
Il «vero» scoop giornalistico
«Questo è vero giornalismo». Al Caffé del Porto hanno ritagliato un’intera pagina della Gazzetta di Parma, hanno aggiunto il commento col pennarello e l’hanno incollata alla vetrata. «Tranquillità e ordine, immigrati invisibili», racconta la giornalista emiliana. Un messaggio ai turisti del Nord. Quest’isola è un paradiso, non incontrerete neanche un tunisino, ma «infradito e profumi africani», come titola il giornale.
I turisti milanesi confermano. Tramonti infuocati con le palme in controluce, cene a base di cous-cous, dammusi con le cupolette e vento caldo. Siamo alla stessa latitudine di Kairouan, Tunisi e Algeri sono molto più a nord. «A chisti ci piace l’Africa ma senza l’africani», commenta una volontaria. «Dormiamo la sera con le finestre e la porta di casa aperte – racconta una coppia di Monza al giornale di Parma. Come ai tempi del Duce – L’isola è sicura come nessun altro luogo. Siamo qui da 10 giorni e dalla tv abbiamo appreso che sono sbarcati 2000 immigrati; noi non abbiamo visto nulla, nemmeno un clandestino, niente. Questo è il vero scoop».
Infatti. Per non infastidire i turisti padani, i migranti vengono immediatamente caricati sui pullman e portati a Contrada Imbriacola, in fondo a una vallata a metà tra Matera e l’inferno dantesco. Invisibili, se non arrampicandosi da una strada secondaria e provando a scorgerli dall’alto. I minori non accompagnati, invece, vengono rinchiusi all’estremo opposto dell’isola, nell’ex base Nato chiamata Loran, un posto sperduto circondato dal filo spinato e affiancato da un curioso cimitero di barche.
Tornando in paese, si gira l’angolo da via Roma e si vede Peppino Impastato: il suo volto è stato dipinto sulla facciata della sede dell’associazione Askavusa. «Si può convivere con tutto questo dolore?», hanno scritto. Un gruppo di ragazzi che ha avviato la campagna «Io vado a Lampedusa» per un turismo responsabile che valorizzi l’isola senza criminalizzare i migranti. Ha protestato con intelligenza contro il reality montato dalle televisioni. Ha proposto il corridoio umanitario per i profughi che provengono dalla guerra in Libia, che invece oggi arrivano rischiando di morire tra le onde. Infine, nei suoi locali, ha raccolto brandelli di memoria in un contesto che preferisce dimenticare e cancellare: scarpe e quaderni, pagine del Corano e teiere. Piccoli oggetti recuperati dalle barche e testimoni muti della grande migrazione del Mediterraneo. Un giorno finiranno nei libri di storia e con loro anche i ragazzi di Askavusa, unici testimoni memori nella sciocca spensieratezza vacanziera.
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ACCADE SULL’ISOLA
In fuga per la libertà mentre sbarca Crialese
Una decina di tunisini sono fuggiti dal centro di prima accoglienza di Lampedusa (dove erano da alcune settimane) per protestare contro il mancato trasferimento dall’isola e contro i rimpatri coatti. Già nei giorni scorsi, circa 200 di loro si erano allontanati dalla struttura e avevano manifestato – in modo pacifico – scegliendo come luogo simbolico il molo Favaloro del porto. Una forma di protesta che aveva portato il sindaco dell’isola Bernardino De Rubeis, a mobilitarsi e a lanciare un appello a Berlusconi affinché solleciti i trasferimenti «prima che ci scappi il morto». Ieri, un primo gruppo di 60 migranti, molti i minori, è stato trasferito in altre regioni italiane. Dalla loro parte si è schierato anche il regista Emanuele Crialese con il suo film «Terraferma», presentato alla Mostra di Venezia. Per la prima proiezione ha scelto l’isola siciliana al centro degli sbarchi di migranti. Con Lampedusa il cineasta ha un rapporto molto stretto (già nel 2002 aveva ambientato lì «Respiro», primo film di una ideale trilogia sul mare che, dopo «Nuovomondo», si conclude con «Terraferma», girato a Linosa). Proprio agli «uomini del mare» Crialese ha voluto dedicare la sua ultima opera, nonostante in questi giorni sia stato accusato di aver fatto un film a tesi contro le autorità italiane e la loro gestione dell’emergenza immigrazione. E di fronte alla manifestazione pacifica dei tunisini, li ha appoggiati senza riserve: «Non sono dei criminali sono solo dei ragazzi che hanno rischiato la vita nella speranza di un futuro migliore e che vogliono riprendersi la loro libertà ».
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