by Sergio Segio | 23 Agosto 2011 6:26
GERUSALEMME – Dopo cinque giorni di lanci di razzi e di conseguenti rappresaglie, le fazioni palestinesi di Gaza annunciano una tregua «temporanea» con Israele. Alla svolta impressa da Hamas, aderiscono anche i Comitati di resistenza popolare, l’ala tra le più radicali della galassia palestinese, quella accusata dallo Stato ebraico di aver organizzato giovedì scorso gli attacchi nel Negev. Ma quanto sia fragile il cessate-il-fuoco lo testimonia la nuova pioggia di razzi, oltre 12, partiti dalla Striscia all’alba di ieri, che hanno colpito ancora le città di Eshkol, Asqelot e Beer Sheeva. Non ci sono stati feriti, ma la tensione resta altissima.
Ieri notte alle tre, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha convocato a Gerusalemme una riunione di emergenza del governo per valutare, insieme ai vertici militari, la strategia per far cessare i lanci di razzi da Gaza. Alla fine prevale la linea morbida. E il timore di scatenare manifestazioni di massa pro-palestinesi nel vicino Egitto, che destabilizzerebbero l’equilibrio di un potere militare già molto debole. «La nostra reazione sarà misurata», spiega una fonte dello Stato ebraico. E, così, i caccia di Tsahal non si levano in volo per la consueta rappresaglia.
L’opzione dell’intervento di terra resta però sul tavolo. I miliziani radicali della Striscia hanno cambiato tattica. Per evitare lo scudo dell’Iron Dome System, le installazioni anti-missile posizionate da Israele al sud del Paese, lanciano da Gaza razzi a raffica in modo da aggirare in parte la rete di protezione. Gli abitanti delle città del sud hanno paura. E Netanyahu non vuole apparire timoroso nei confronti dei palestinesi più radicali. Per questo, attraverso uno dei suoi più stretti collaboratori, nel pomeriggio di ieri, dopo la carota mostra anche il bastone, negando qualsiasi accordo con le fazioni della Striscia. «Non firmiamo intese con Hamas, né direttamente né indirettamente – spiega alla radio israeliana una fonte dell’ufficio del primo ministro – Israele sta monitorando l’attuazione del cessate-il-fuoco. E se continueranno gli attacchi, risponderemo di conseguenza».
Lo Stato ebraico è a un bivio. Ma più di un commentatore mette in guardia il premier da passi falsi che potrebbero ritorcersi contro il Paese e dare spinta all’offensiva diplomatica di Abu Mazen che, a settembre, chiederà all’Onu di votare il riconoscimento dello Stato palestinese. «L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno – avverte Hanoch Daum, opinionista di Ynetnews – è un’operazione di terra a Gaza che unirebbe il mondo contro di noi».
Israele si sente più vulnerabile. Dopo gli attacchi di giovedì scorso nel Negev, il governo ritiene che i nuovi vertici militari del Cairo non garantiscano più la sicurezza nel Sinai demilitarizzato, oramai avamposto dei miliziani radicali che minacciano lo Stato ebraico. E si fa largo con forza, come rivela il quotidiano Haaretz, l’idea di modificare lo storico trattato di Camp David, in modo da permettere all’Egitto di schierare più soldati e artiglieria pesante per controllare meglio i porosi confini con la Striscia. La fine di un tabù, in nome della sicurezza di Israele.
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