by Sergio Segio | 26 Agosto 2011 6:27
TRIPOLI — L’ultimo iftar di Al Mahdi è stato molto in anticipo sull’alba del giorno in cui è stato ucciso. L’ultimo pasto previsto dal ramadan lo ha consumato con un gruppo di amici nel patio della casa di chi ci aveva accolto alle 2 e 30. Poi Al Mahdi, alto, massiccio, i capelli corti color pepe e sale di un uomo di 42 anni, si è allungato su uno dei materassini sottili disposti lungo le pareti del salone principale. Nella sua jabaliya bianca, ha dormito poco più di sei ore, e al risveglio si è inginocchiato di fronte al muro per la prima delle sue preghiere quotidiane. Quella mattina era di buon umore, si è preoccupato della nostra colazione della quale lui non avrebbe toccato nulla, perché già era iniziata la sua lunga giornata di digiuno assoluto, che seccava la gola già nella tarda mattinata. Niente deroghe, «fino alle 8» precisava intransigente con le dita, quando tentavamo comunque di offrirgli un sorso d’acqua.
Al tramonto del giorno prima, però, non aveva perso tempo: all’ora canonica aveva fermato l’auto in un punto imprecisato della strada tra Dehiba, al confine con la Tunisia, e Zintane, la sua città natale, a sud ovest di Tripoli, e si era autoinvitato al banchetto serale di un check point di ribelli. Uno di loro ha apparecchiato per noi il cofano dell’auto di Al Mahdi: pizzette all’harissa piccante, dolci infarinati di cocco, biscotti, succhi di frutta, mentre il nostro autista raggiungeva i guerriglieri sui tappetini rettangolari, per condividere con loro, oltre al pasto, le ultime notizie dal terreno, la felicità delle vittorie, il raccoglimento della preghiera.
Durante il viaggio, invece, parlava poco, le mani aggrappate sul volante, il mento quasi appoggiato sulle dita per scrutare i dislivelli della strada e, nel buio, gli improvvisi sbarramenti di terra accumulata dai ribelli ogni 20 chilometri circa, per costringere eventuali auto nemiche a rallentare. Se non riusciva a evitare uno scossone o un sobbalzo dell’auto stracarica, Al Mahdi stemperava la sua delusione con una risata: «Salto, salto, salto», sfoggiava le poche parole di italiano che conosceva. Altrimenti non si preoccupava dei lunghi silenzi che interrompeva con qualche cd di musiche marziali.
Aveva proposto di fermarsi a salutare la sua famiglia, quella sera, una tappa a Zintane, senza deviazioni dal percorso. Ma senza aggiungere che gli sarebbe servita per procurarsi qualcosa di cui sentiva la mancanza avvicinandosi a Tripoli: il suo kalashnikov. Lo aveva appoggiato alla parete del salone, in cui ci aveva invitato per presentarci il padre e i due fratelli più piccoli, incantati davanti a una sequenza di fotografie e di video tratti da Al Jazeera sulla battaglia di Zintane. Il padre invece era felice di mostrare a rari ospiti italiani la sua ancor più rara collezione del periodico della Regia Aeronautica «Le vie dell’aria», indirizzate «al Municipio di Tripoli» e dense di notizie sugli spostamenti di Mussolini, nel 1938, fra gli aeroporti italiani e quelli dell’Africa orientale. Si era congedato dal figlio con serenità , dopo che un vassoio di tazzine di thè e di biscotti ci era stato fatto pervenire dalle donne di casa, riunite in qualche stanza segreta. Il padre-patriarca comandava tutti a bacchetta. Dai più giovani agli uomini fatti. E anche il figlio Al Mahdi non sfuggiva alla regola, anzi la viveva come parte fondamentale di una cultura, di una tradizione che ogni giorno diventa identità . Nelle piccole, come nelle grandi cose.
Era un uomo integro, Al Mahdi, composto, un po’ severo e taciturno. Lo è stato anche nei convulsi momenti che hanno preceduto la sua fine, quegli attimi decisivi nei quali deve avere capito di essere perduto in mezzo a tutto quell’odio. Non sappiamo che cosa tentasse di spiegare agli uomini inferociti che lo circondavano pieni di odio, facce stravolte dal desiderio di far male, dalla frenesia del linciaggio che già pregustavano. E nulla poteva più impedire loro di arrivare fino in fondo. Ma si può escludere che abbia chiesto pietà . Negli ultimi secondi si è raccolto in preghiera e aspettato con dignità il crepitare del mitra.
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