Una identità  posticcia dalle radici profonde

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 Attore politico polimorfo, nato ai tempi della senescente e declinate «prima Repubblica» ma affermatosi nel frangente del mutamento politico e istituzionale degli anni Novanta, la Lega nord, figliale creatura di Umberto Bossi, da circa vent’anni condiziona il panorama subculturale del nostro paese. Come tale, di contro a quanti ne avevano predetto una repentina scomparsa, è probabile che possa ancora giocare un ruolo di rilievo nei tempi a venire, anche se il legame con Berlusconi costituirà  un dazio da pagare, senz’altro onerosamente. Per più aspetti, dal 1994 in poi, ha peraltro assunto quella parte di ago della bilancia nella coalizione di governo che fu del Psi di Craxi. Da quest’ultimo, tuttavia, sono molte di più le cose che la differenziano di quelle che la rendono per alcuni tratti omologa. Un elemento in particolare fa la differenza, ovvero il fatto che mentre la Lega è stata capace di costruire un’egemonia di umori, di atteggiamenti, di lessico su una parte del paese, dettando l’agenda politica delle priorità  e dando il tono alla discussione, nel caso socialista tutto ciò non era avvenuto, malgrado gli illusori auspici dell’allora segretario. Inoltre l’elettorato leghista, pur nella sua diversificazione, ha come tratto prevalente il vecchio calco democristiano. In altre parole, risponde ad un insediamento sociale dai tratti «tradizionalisti» e assai poco laici. Non per questo la Lega non ha saputo giocare d’anticipo, continuando ad offrire di sé l’immagine di partito di movimento e di assestamento, di lotta e di governo.

Sulla continua intercambiabilità  di questi due ruoli, e sulla costante mobilitazione dei suoi aderenti ma anche dei suoi elettori verso obiettivi futuribili, la Lega ha giocato tutte le sue fortune, cercando di qualificarsi nel medesimo tempo per una sua coltivata irriducibilità  alle logiche della «vecchia politica» e per la cura di una identità , quella padana, volutamente trascurata se non omessa da tutti gli altri. Liquidare questa condotta come illusionistica sarebbe un peccato di superficialità , tanto più dinanzi alla lunga durata del fenomeno leghista, non cogliendo la diffusa esigenza di un soggetto mitopoietico, capace di conferire alla politica una dimensione non tanto progettuale quanto fortemente immaginifica.
Roberto Biorcio, sociologo milanese che segue le orme del partito di Bossi dalla nascita, con il suo ultimo studio su La rivincita del Nord (Laterza, pp. 177, euro 18) ci consegna un resoconto aggiornato sulla sua evoluzione e sulle sue trasformazioni. Il tratto forte che gli ha garantito una rendita di posizione è la saldatura tra il rimando alla territorialità  del proprio insediamento, la centralità  della comunità  locale (ancorché molto spesso più inventata che reale), il conclamato interclassismo, il costante richiamo alla politica come azione di protesta ma anche di risarcimento dei torti subiti e lo sforzo di rappresentare quei settori della società  orfani delle vecchie appartenenze partitiche. L’elemento che si è inserito in questa dialettica è, oramai da tempo, il ruolo e la fisionomia professionale che gli amministratori leghisti vanno assumendo, proprio su quel territorio che è il luogo elettivo dell’azione della Lega. Dal rapporto tra questi e la leadership bossiana, in un partito a forte centralizzazione, deriverà  il futuro dell’organizzazione.
In sintesi, il testo di Biorcio si segnala per l’asciuttezza della analisi, non interferita da valutazioni di merito che non siano quelle che discendono dai dati e dalla loro elaborazione. Un passo in avanti rispetto alle letture demonizzanti o tardivamente acquiescenti.


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