Un male antico tornato d’attualità  colpisce al Nord e nelle metropoli

by Sergio Segio | 25 Agosto 2011 5:50

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La “malattia romantica” che consumò Violetta e uccise John Keats sembrava ormai relegata alla letteratura. In realtà  non si è mai allontanata da noi, accompagnandoci dall’epoca delle mummie fino a quella dell’analisi genomica. Oggi la tubercolosi uccide 1,7 milioni di persone nel mondo, di cui due terzi in Africa e nell’Asia sudorientale. In Italia ad ammalarsi ogni anno sono 4.600 individui, con oltre il 90% dei casi risolti grazie a un cocktail di normali antibiotici.
Se il mycobacterium tuberculosis è riuscito a sopravvivere tanti millenni al nostro fianco è grazie alla sua capacità  di nascondersi proprio dentro alle cellule che avrebbero il compito di ucciderlo: quei macrofagi del sistema immunitario che sigillano i batteri al loro interno e congelano l’infezione senza in realtà  eradicarla. Nel 90-95% dei casi di contagio la tubercolosi resta infatti latente senza mai svilupparsi in malattia. Ma di guarigione completa non si riesce a parlare per colpa dell’inedita strategia del mycobacterium di nascondersi proprio in bocca alle cellule del sistema immunitario, dove i vaccini non riescono ad arrivare.
Anche se un tentativo di immunizzazione esiste (e all’infermiera del Gemelli era stato somministrato), la Cochrane Collaboration che si occupa di revisione dei trattamenti comunemente usati in medicina, ha concluso che per quanto riguarda gli adulti «la ricerca non ha dimostrato alcun effetto consistente di questa iniezione». «Sembra esserci una certa efficacia quando invece il vaccino è somministrato ai neonati» spiega Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le malattia infettive Spallanzani di Roma.
La definizione data dall’Organizzazione mondiale della sanità  alla tubercolosi come “malattia della povertà ” non deve ingannare. Anche se l’80% dei 14 milioni di ammalati nel mondo è concentrata in 22 paesi, il bacillo si è scavato una nicchia nelle periferie delle grandi città  ricche. «In alcuni quartieri di Londra il rischio di ammalarsi è superiore a quello del terzo mondo», ha messo in guardia all’inizio di giugno il St Mary Hospital. «Nelle città  metropolitane l’incidenza è fino a 4 volte superiore rispetto alla media nazionale», ha ribadito due giorni fa la circolare del nostro ministero della Salute in risposta alla vicenda del Gemelli.
La scintilla in effetti scocca spesso dove ricchezza e povertà  si incrociano. Come nel caso della scuola elementare di Milano Leonardo Da Vinci, dove a febbraio si sono registrati una dozzina di contagi per colpa (si dice) di un senzatetto che dormiva nel cortile. O come quando ad aprile le autorità  sanitarie del Veneto chiesero di fare il test a tutti i clienti di una prostituta romena finita in ospedale.
Il bacillo che vive allo stato latente nell’organismo di un terzo degli individui del mondo rialza la testa in caso di un indebolimento del sistema immunitario. «Nel nostro paese – spiega Gianni Rezza, infettivologo dell’Istituto Superiore di Sanità  – ad ammalarsi sono anziani che avevano già  sviluppato la tubercolosi in passato o immigrati che provengono da paesi in cui la malattia è endemica. Questo non si traduce però in un aumento dell’incidenza fra gli italiani».
Nell’ultimo decennio, conferma il rapporto 2008 sulla tubercolosi del Ministero della Sanità , il numero di ammalati originari di un paese straniero è raddoppiato e ha raggiunto il 50% dei casi. I due terzi di immigrati colpiti vivono al nord mentre la nazionalità  più colpita è la romena. Contraddicendo ancora una volta la sua etichetta di “malattia della povertà “, la tubercolosi in Italia si presenta nel 59% dei casi al Nord, nel 24 al Centro, nel 12 al Sud e nel 5 nelle Isole.

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