Un corpo a corpo con il sapere

by Sergio Segio | 14 Agosto 2011 6:52

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 In un’immaginaria storia universale dei proverbi, quello che recita «tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare», guadagnerebbe di diritto la palma del più reazionario. Dal linguistic turn al pensiero della differenza sessuale, che si possano «fare cose con le parole» è diventato infatti di palmare evidenza. Ogni tanto, tuttavia, la tendenza a far rovesciare di nuovo le onde di qualche mare – tutt’altro che rosso – sulle relazioni tra parole e politica, ha qualche rigurgito. A riempire questo presunto «mare» – con pratiche e concetti – ci ha pensato il collettivo Verlan: uno dei laboratori della nuova politica più vivaci della scena romana. Giovani donne e giovani uomini impegnati – a partire da sé, dalle proprie relazioni e dai propri contesti – in un conflittuale ripensamento dei protocolli di trasmissione e circolazione dei saperi all’interno (e all’esterno) dell’università . Arrestiamoci al paratesto: non è un caso che la loro prima sortita editoriale sia il volume Dire, fare, pensare il presente (Quodlibet, pp. 204, euro 20), che raccoglie gli atti del convegno eponimo tenutosi a Roma Tre circa un anno fa. I nodi affrontati dal volume sono quattro, dotati, come si conviene, di corollari importanti e legati tra loro da nessi non effimeri. Il catalogo è questo: il lavoro, il comune, il linguaggio, il corpo e il sapere.

Il menù è questo. Le tecniche usare sono le più diverse: dalla psicoanalisi al diritto, dalla semiotica alla filosofia, che, declinata secondo sensibilità  assai diverse, fa la parte della leonessa. Ma un ruolo tutto speciale è quello giocato dal pensiero della differenza sessuale, vero magnete capace di orientare la messe di riflessioni che circolano nel testo. Come è facile intuire incrociando nomi e temi, il volume si rivela così un prezioso regesto dei «luoghi comuni» del pensiero critico contemporaneo. L’impresa di Verlan appare incorniciata dal partito preso di considerare il sapere come un bene comune. È da questa intuizione, che, accordando un posto speciale alle relazioni nel circuito di produzione e circolazione del sapere, si dipartono, distinte e intrecciate, le ulteriori piste di approfondimento indicate dal testo.
Si comincia con una riflessione sulle metamorfosi del lavoro, quello precario, cognitivo e femminilizzato, percorso da una corrente di dicotomie, come quelle che separano il dominio del materiale da quello dell’immateriale o che decretano l’epocale transizione dal fordismo al postfordismo. Il laboratorio Verlan insiste piuttosto sui caratteri di continuità  che i due modi di produzione intratterrebbero. Un buon esempio è quello della meritocrazia, un discorso e una pratica attorno a cui si sono andate addensando retoriche di diversa natura, che, investendo sul carattere liberatorio di alcuni tratti tipici del postfordismo, mascherano in realtà  una «polpa» tutta interna all’ordine simbolico del capitalismo; un orizzonte che può essere bucato soltanto laddove siano una diversa idea e una diversa pratica delle relazioni a essere sperimentate. Se, come si diceva, l’insegna sotto cui si raccolgono i contributi del Laboratorio può essere opportunamente condensata nella formula del sapere come bene comune, il capitolo dedicato tematicamente ai beni comuni può essere a giusto titolo considerato il cuore segreto del volume.
Di fronte all’ormai crescente e poco controllabile discussione attorno ai beni comuni, quella di offrirne una definizione univoca e determinata appare una sfida donchisciottesca, e, per evitare di condannarsi alla fatica di Sisifo, Verlan prova a seguire la wittgensteiniana ipotesi secondo cui è nell’uso che occorre riconoscere la chiave d’accesso al significato: ecco che allora una costellazione, pure assai dispersa, come quella che tiene insieme i rapporti tra natura e cultura, lo statuto e le metamorfosi dello spazio politico, l’uso politico della genealogia (i rapporti tra vecchi e nuovi commons e vecchie e nuove enclosures), finiscono per precipitare in questioni urgenti, politicamente salienti e teoricamente non meno spinose: quella di una possibile istituzionalizzazione del comune, della natura della sua gestione e, infine, della comunità  che ne costituirebbe il referente. Le risposte collettive di Verlan non coincidono completamente con quelle dei propri interlocutori, inclinando verso un più radicale ripensamento di quell’antropologia proprietaria che appare come la maggiore pietra d’inciampo per un pensiero e una pratica del comune capace di tenere insieme – senza nostalgie passatiste – cosmopolitismo, ecologia e sostenibilità .
Un intermezzo più obliquo, e nondimeno decisivo, è quello dedicato alle vicissitudini dell’Edipo: se il desiderio ha passato davvero la staffetta al godimento, qual è dunque lo spessore dell’ordine simbolico? La discussione attorno alla sua storicità , ed eventuale trasformabilità , diventa l’occasione per fare i conti con l’epistemologia e la politica della psicoanalisi (e segnatamente con quella di marca lacaniana).
Ancora una volta Verlan suggerisce la praticabilità  – nel vivo dell’esperienza – di una via intermedia. Infine, una riflessione attorno ai rapporti tra corpo e linguaggio consente una sorta di ricapitolazione dei temi percorsi lungo tutto il libro. Le questioni della verità , della persuasione e dell’efficacia, insieme con quelle del performativo e della risignificazione, aprono a un ventaglio di ulteriori campi d’indagine: dalla pretesa – nell’informazione e nei mass media – di distinguere qualità  e quantità , ai rapporti – assai più «profondi» – che legano natura e cultura, linguaggio e corpo. Ed è appunto attorno a questo nodo che annoda il dominio politico e quello linguistico che sembrano convergere le ipotesi seminate lungo il percorso di riflessione testimoniato dal libro – e dalla sua orchestrazione così singolare.
L’ipotesi di un contro-linguaggio – luogo comune per eccellenza, capace di mediazioni e aperto alla risignificazione – sembra essere il vero antidoto a quelle dicotomie – genuine e presunte – con cui deve vedersela chi abbia in animo di dire, fare e pensare il presente, che equivale a dire: di dire, fare e pensare il possibile. Nell’impossibile e nel condizionato dell’accademia sarebbe già  molto, moltissimo. Se quello di Verlan è perciò un modo esemplare di abitare criticamente il deserto dell’università  italiana, non resta che augurarci che le oasi si moltiplichino.

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