Truffe e scorie tossiche La rifiutopoli calabrese
VIBO VALENTIA.Maxitruffe fiscali, tonnellate di rifiuti pericolosi smaltiti a ridosso di campi coltivati. Persino un porto da cui far salpare bastimenti colmi di monnezza magari provenienti da tutto lo Stivale. La rifiutopoli calabrese è un pozzo senza fine, una saga che si arricchisce di aspetti sempre più inquietanti. Con la complicità di politici e colletti bianchi senza scrupoli, E nel disinteresse generale, il brodo di coltura dell’impunità .
I soldi non puzzano
Avevano trovato il modo di eludere le tasse, col sofisticato sistema delle scatole cinesi. Creando società di convenienza, operanti nel settore dei servizi ambientali, alle quali passare i crediti ma non i debiti. Un fine stratagemma che si è protratto dal 2003 ad oggi con una sottrazione illecita alle casse dell’erario di decine di milioni. L’indagine Pecunia non olet, condotta dalla Procura di Catanzaro, ha squarciato il velo su una holding criminale dedita a maxievasioni fiscali. Sequestrati beni per 90 milioni, indagati imprenditori, funzionari e pezzi grossi della politica regionale. Nel mirino degli inquirenti la discarica di Alli, nel catanzarese, alla cui gestione negli ultimi 4 anni si sono avvicendati tre società di capitali (Slia spa, Enerambiente spa, Enertech srl). Tutte riconducibili alla stessa compagine societaria e sotto la supervisione dell’Ufficio commissariale per l’emergenza ambientale della Regione Calabria. Il sistema architettato era quello di «rendere inattaccabili da eventuali azioni esecutive il patrimonio attivo e i crediti maturati dalle società nell’esecuzione di proficui contratti di appalto». Un meccanismo a detta della Procura «non dissimile dall’intestazione fittizia di beni operata dai mafiosi, un modo per sottrarre illecitamente allo Stato ciò che è dovuto per i propri interessi personali». Un mosaico di società , collegate ad un’unica holding, che, dopo essersi aggiudicate sull’intero territorio nazionale numerosi appalti per la raccolta e lo smaltimento di rifiuti solidi urbani venivano «caricate artatamente di ingenti debiti tributari». Scatole vuote, perché le stesse società venivano private delle poste attive traslate in altre società costituite ad hoc, utilizzando fraudolentemente gli istituti giuridici della scissione di societaria e del conferimento di ramo d’azienda. Il vero punto dolens, secondo gli inquirenti, era che «tali cessioni di crediti sono state sempre avallate dai politici e funzionari regionali indagati». Perché tanto Franco Pugliano (Lista Scopelliti), assessore regionale all’Ambiente e subcommissario ai rifiuti dall’agosto del 2010 a marzo del 2011, che Giovanni Melandri, attuale commissario, erano a conoscenza delle pendenze debitorie di Enerambiente spa e sapevano anche che Equitalia aveva iscritto a ruolo gli stessi debiti. Ma nonostante ciò «avrebbero permesso indebiti incassi di denaro pubblico a società prive peraltro di garanzie e di autorizzazione alla gestione della discarica». Insomma, un progetto criminale eseguito con la compiacenza della politica regionale. Sulla vicenda, il presidente Peppe Scopelliti, ancora non si è espresso. Nonostante sia stato all’epoca dei fatti commissario straordinario per l’emergenza ambientale. L’accelerazione all’inchiesta nasce dal pericolo che il dominus del sodalizio, l’imprenditore veneziano Stefano Gavioli stesse alienando cespiti patrimoniali in tutta fretta per spostare i soldi all’estero «dove i tempi per le rogatorie internazionali avrebbero reso molto più difficile il recupero delle somme». Un nome, quello di Gavioli, notissimo nel campo dei servizi ambientali. Dalla Campania alla Toscana a lui risultano infatti riconducibili oltre 50 società , operanti nel settore della gestione dei rifiuti, avente tutti la stessa sede legale al civico 4 di via della Chimica a Venezia.
Agrumi al nichel
«Poison» come veleno. Una pozione mortale servita negli agrumeti. Un cocktail tossico interrato nei campi agricoli. Per anni nei terreni di San Calogero, nel vibonese al confine con la piana di Gioia Tauro, a ridosso di coltivazioni di agrumi, sarebbero stati riversati rifiuti tossici di derivazione industriale. Altissime percentuali di nichel, vanadio e cromo. Secondo i finanzieri della compagnia di Vibo Valentia che hanno condotto le indagini ne sarebbero state sotterrate quasi 150 mila tonnellate. L’inchiesta Poison, coordinata dalla Procura di Vibo, ha smantellato un’organizzazione criminale dedita al trasporto e all’illecito smaltimento di rifiuti che operava tra Calabria, Puglia e Sicilia. Un sodalizio criminale composto da imprenditori e dirigenti industriali senza scrupoli, dipendenti provinciali prezzolati, faccendieri indefessi che trafficava sulla salute di cittadini inconsapevoli. Perché i capi di imputazione pendenti sui 18 destinatari di avvisi di conclusione indagine parlano chiaro: disastro ambientale con conseguente pericolo per l’incolumità pubblica, avvelenamento di sostanze alimentari.
Il meccanismo di stoccaggio e successivo interramento era perfettamente oliato. I tecnici della Provincia di Vibo sono accusati di avere rilasciato autorizzazioni non conformi nei confronti della società sotto inchiesta, la Fornace Tranquilla srl il cui titolare, Pino Romeo di Taurianova, già arrestato nel 2009, avrebbe attestato falsamente il recupero e il reimpiego mai avvenuto nel campo dell’edilizia dei rifiuti pericolosi che, in realtà , di volta in volta, venivano inviati a San Calogero e interrati a ridosso degli agrumeti. Dalle meticolose indagini, svolte con l’ausilio di tecnici che hanno effettuato analisi e carotaggi del terreno, è emerso il coinvolgimento di numerose società calabresi e pugliesi che avevano sottoscritto contratti per il trasporto, il recupero e lo smaltimento di fanghi altamente inquinanti di derivazione industriale con l’Enel. In effetti, i rifiuti trafficati illecitamente provenivano dalle Centrali termoelettriche a carbone di Brindisi, Priolo e Termini Imerese. E tra gli indagati figurano alcuni dirigenti dell’Enel. Lo smaltimento nei terreni agricoli avrebbe consentito a quanti lo gestivano un risparmio di 18 milioni di euro oltre ai 2 milioni evasi al fisco per il mancato pagamento del tributo per il deposito in discarica dei rifiuti solidi. In seguito alle indagini, già dal luglio dello scorso anno, il prefetto di Vibo aveva disposto la distruzione dei prodotti agricoli coltivati nelle vicinanze dell’area dello stabilimento interessata. Ma forse troppo tardi, la bomba ecologica era stata già innescata.
«La Calabria è terra di rifiuti tossici perché si riesce sempre ad avere l’autorizzazione necessaria, il permesso al posto giusto, e soprattutto il luogo dove portare i veleni. Chiediamoci questi camion provenienti dalla Puglia e dalla Sicilia come hanno potuto circolare senza essere minimamente mai fermati? – si domanda Francesco Cirillo nel blog Sciroccorosso – chiediamoci come è stato possibile per 7 anni di fila a sotterrare rifiuti senza che nella zona attorno alla fabbrica qualcuno vedesse, sentisse, i movimenti di camion e ruspe? Peraltro questi reati di natura ambientale non prevedono neanche l’arresto, essendo stati depenalizzati dal primo governo Berlusconi e quindi le 18 persone la faranno franca. Anche perché fino a quando si istruirà un processo, interverrà una prescrizione, così come è già avvenuto per il processo sulle ferriti di zinco seppellite nella sibaritide”, E così dopo i rifiuti industriali scaricati nel fiume Olivo, quelli interrati nella sibaritide, una città intera come Crotone costruita con gli scarti industriali, il disastro ecologico della Marlane di Praia, le navi dei veleni affondate impunemente nei mari calabresi, anche il vibonese conosce l’inquinamento massivo dell’ecosistema. Con un’area infestata di 200 mila metri quadri dal pregiato valore storico e naturalistico. Un’altra pagina nel libro nero della Calabria dei veleni.
L’hub della monnezza
L’autorità portuale di Gioia Tauro ha autorizzato la ditta Salvaguardia Ambientale (di Raffaele Vrenna, capoccia del settore rifiuti, già vicepresidente di Confindustria Calabria e patron del Crotone Calcio) per operazioni nel porto di Crotone. La ditta è stata autorizzata a conferire rifiuti «presso impianti situati in zone distanti». Questo sulla carta. Nei fatti, il timore è che il porto pitagorico si trasformi in un terminal di rifiuti provenienti da tutta Italia. E che all’attività di carico si aggiunga anche quella di scarico. Magari in alto mare, lontano da occhi indiscreti. Salvaguardia ambientale si è affrettata a specificare che le uniche azioni che si svolgeranno nel porto di Crotone «saranno esclusivamente operazioni di carico in uscita, legate alla gestione dei rifiuti provenienti dalla provincia di Crotone. I conferimenti avverranno in impianti francesi dell’azienda Sarp». La provincia di Crotone e il suo presidente Stano Zurlo (Pdl) dopo il primo parere sfavorevole hanno sciolto la riserva ai primi di agosto. Schierandosi senza se e senza ma a favore dell’operazione. D’altronde, Vrenna era stato un grande elettore della destra alle provinciali di due anni orsono. Che portarono il Pdl a violare un’area tradizionalmente rossa. Una giunta, quella di Zurlo, travolta dagli scandali e dalle inchieste antimafia. E così il porto di Crotone uno scalo dalle grandi potenzialità per diventare leader nel settore turistico diventerà nulla più che un grande hub della monnezza. Un passo in avanti, indubbiamente.
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