Tfr in Busta Paga, il Caso delle Tasse i Paletti della Cisl

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ROMA — «Liberalizzare» la buonuscita. Mettere subito i soldi del Tfr in busta paga così è il lavoratore che decide come meglio utilizzarli. Sul piatto — sotto forma di reddito disponibile e non differito — c’è una cifra che si aggira sui 20 miliardi l’anno. Di questi, 5,1 finiscono ai fondi pensione complementari, cui sono iscritti 5,4 milioni di lavoratori. Altri 5,7 miliardi vanno invece all’Inps, che li gira al Tesoro, e sono quelli dei lavoratori impiegati in aziende con più di 50 addetti che non hanno scelto di aderire ai fondi. Infine ci sono altri 13 miliardi che costituiscono l’accantonamento annuale per il Trattamento di fine rapporto di quei lavoratori delle imprese fino a 50 dipendenti che allo stesso modo hanno deciso di tenersi l’istituto della liquidazione anziché aderire a un fondo integrativo. La proposta di liberare il Tfr, annunciata a più riprese come «una grande sorpresa» dal ministro delle Riforme, Umberto Bossi, è ancora sul nascere, ma incassa già  dei «no» e delle obiezioni.
Categorica la presa di distanza della Cgil: «Basta giocare sulla pelle dei lavoratori — dice Vera Lamonica — li hanno già  massacrati sufficientemente. Non accetteremo ulteriore accanimento». Al segretario confederale Vincenzo Scudiere «sembrano fuochi d’artificio agostani. È tutta propaganda. Non si può dire, come ha fatto Bossi, che si aumentano i salari, perché quelli del Tfr sono sempre soldi dei lavoratori. Devono risolvere i problemi previdenziali, come si è detto fino ad adesso, o quelli salariali, come si sta dicendo oggi?». Toni diversi, ma stessa linea dalla Uil: «Se il governo — dice il segretario confederale Domenico Proietti — vuole migliorare le buste paga, la via maestra è abbassare le tasse». Giudica l’eventualità  di una liquidazione spalmata «un artificio: è salario differito, non una cifra aggiuntiva». Propositivo, invece, il leader della Cisl Raffele Bonanni: «Abbiamo bisogno sia di previdenza che di un po’ di soldi». Per questo lancia una mozione «mediana»: dedicare una parte dell’accantonamento alla previdenza integrativa «obbligatoria per avere una stampella adeguata» e detassare al 6% questi contributi aggiuntivi. L’altra parte del Tfr andrebbe in busta paga, anche questa con un prelievo agevolato, «massimo dell’11%». Sul tavolo anche l’ipotesi, già  lanciata sul Corriere da Massimo Mucchetti, di lasciare il lavoratore libero di destinare il Tfr all’aumento dei contributi Inps, per avere alla fine una pensione obbligatoria più pesante.
Ma ci sono ancora molti nodi da sciogliere. Oltre alla tassazione della quota parte, l’armonizzazione della eventuale riforma col regime in vigore per gli statali. Stabilire se la possibilità  si aprirà  solo per i nuovi assunti o anche per quelli che hanno già  scelto tra fondi pensione e accantonamento. E come non far pesare troppo il meccanismo sulle aziende sotto i 50 dipendenti, che usano il Tfr per l’autofinanziamento. Per il direttore di Confcommercio, Francesco Rivolta, c’è il «rischio di perdita di liquidità », inoltre occorrerà  «valutare se gli oneri sul versante dell’Irpef a carico dei lavoratori aumenteranno così come quelli sulle imprese».
Per ora dal governo è il sottosegretario all’Economia, Alberto Giorgetti, ad ammettere che «all’interno della maggioranza c’è un dibattito aperto». Ma aggiunge: «Prima vediamo la proposta. Ma certe proposte hanno coperture un po’ ballerine». Nel Pdl l’esperto di previdenza Giuliano Cazzola boccia l’ipotesi: «Mi sembra del tutto inopportuna perché il Tfr è destinato a cose importanti». E fa poi notare che la quota annuale per il fondo del Tesoro gestito dall’Inps «vale dai 5 ai 6 miliardi di euro». Se prendesse piede l’ipotesi verrebbero meno anche «queste importanti entrate ordinarie».


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