Tende e «cucine collettive» Indignati in lotta a Tel Aviv

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Le vendite sono crollate del 30%e il costo è sceso. Nel frattempo, da mesi, i medici israeliani protestavano con marce e scioperi della fame chiedendo salari più alti. Infine, è arrivata Daphni Leef, una 25enne di Tel Aviv che realizza video musicali e che non poteva permettersi l’affitto nonostante lavorasse 7 giorni su 7, servendo al bar per arrotondare.
A luglio ha annunciato su Facebook che sarebbe andata a vivere in tenda per protesta e si è accampata su Rothschild Boulevard, tra i pub trendy e le banche del centro. E così una ragazza che confessa di non sapere i nomi dei politici del suo Paese (ma di cinema sa tutto) ha calamitato intorno alla sua campagna la rabbia della classe media israeliana contro il carovita. Tre settimane dopo, almeno 400 tende, alcune con tanto di numero civico, sono allineate nelle aiuole centrali all’ombra degli alberi di fico, senza ostacolo al traffico. Colorate da cartelli e graffiti, sono raggruppate intorno a vecchi divani e stuoie dove si suona la chitarra e si dibatte fino all’alba.
 La tendopoli ha lanciato una sfida al premier Bibi Netanyahu: «Le priorità  devono cambiare» . All’inizio il governo ha sperato che se ne tornassero a casa da soli. «Anarchici illusi e viziati, che mangiano sushi e fumano il narghilè» , li ha definiti un sindaco ad una tavola rotonda del Likud, il partito del premier. Ma la tendopoli-mania ha contagiato Israele: ora ce n’è una quasi in ogni città , e proteste si sono tenute ogni settimana.
L’altro ieri, 300 mila persone hanno marciato in tutto il Paese. Se gli accampati sono soprattutto 20-30enni, alle manifestazioni si sono uniti tassisti, mamme con passeggini, contadini, insegnanti, riservisti. E Netanyahu, che li aveva chiamati «populisti» , vedendo la propria popolarità  in calo e quella della tendopoli alta, ha formato un team per affrontare le questioni socio-economiche che agitano la piazza. Gli «indignados» israeliani, a differenza dei colleghi spagnoli, non hanno grossi problemi di disoccupazione. Rappresentano una classe media che lavora ma non riesce a coprire le spese di casa, cibo, istruzione dei figli. Ce l’hanno con gli oligarchi che hanno monopolizzato i settori più importanti dell’economia, ma soprattutto con un governo che gliel’ha permesso, allontanandosi dagli ideali di egualitarismo e dal senso di comunità  delle origini. E in un Paese sempre in guerra dove il servizio militare è obbligatorio, lamentano d’essere «pronti a morire per Israele, ma di non riuscire a viverci» .
Non si parla solo di ricotta ma dei valori del Paese, come hanno spiegato gli scrittori e sostenitori della causa David Grossman e Amos Oz. Parola d’ordine: «giustizia sociale» . Ma ci sono anche divergenze. Omer Rosen, sceneggiatore, arrivato domenica, spiega che i primi arrivati «hanno avuto coraggio ma in certi casi si trasforma in sindrome napoleonica» . Mentre la mamma, nata in un kibbutz, lo aiuta a servire torta al cioccolato in una «cucina collettiva» , Omer argomenta che il governo deve limitare i costi degli affitti e gli acquisti da parte di investitori che fanno lievitare i prezzi.
 L’architetto 39enne Almog Shriki invece ce l’ha «con gli ultraortodossi» che non lavorano ma ricevono sussidi, oltre che «con gli arabi e i sindacati» , e per lui bisogna costruire ovunque, anche in Cisgiordania — la scorsa settimana il ministro dell’Interno ha giustificato con la crisi degli alloggi l’edificazione (condannata da Usa e Ue) di 900 unità  a Gerusalemme est.
 Un gruppo di hasidim canta canzoni di Hannukah, un tizio in mutande beve birra in una piscina gonfiabile. «Stiamo ancora unendoci» , spiega Maya Rimer, 28 anni, dondolandosi sull’amaca. I media invitano la tendopoli a presentare richieste precise, ma Daphni, seduta ad un caffè vicino Rothschild (è stata cacciata dalla sua tenda per via— dice— di «gelosie» ), replica che non è ancora il momento.


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