Tedeschi, serbi, hutu del Ruanda Quando la Storia si vendica

by Sergio Segio | 28 Agosto 2011 6:26

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Nonostante l’appello dei nuovi leader libici a evitare vendette e esecuzioni sommarie, il successo della rivoluzione si macchia giorno dopo giorno anche del sangue dei vinti, non solo di quanti cadono in battaglia, come è purtroppo logico, ma di quanti sono fatti prigionieri o vengono additati come mercenari o sgherri del regime: funzionari, poliziotti, soldati, sbandati, civili, molti dei quali «colpevoli» soltanto di aver servito una parte, qualcuno per convinzione, molti per bisogno, come coloro che per poche centinaia di dollari emigrarono in Libia dai Paesi vicini per fare i soldati. Non conosciamo le cifre, ma le denunce e le cronache di brutali rese dei conti si susseguono.

Dalla notte dei tempi, sembra un processo inevitabile, il prezzo umano da pagare alle rivoluzioni, ai cambi di regime, alle guerre civili, a un colpo di Stato, talvolta a prescindere dalla legittimità  politica e morale del nuovo corso. La riconciliazione nazionale e la ricostruzione di un Paese sembrano avere bisogno — oltre che di aiuti materiali e magari di truppe di pace — ancora di morti e di martiri, mentre sono proprio le vittime della parte sconfitta ad allungare, con la memoria delle vendette subite, la fase della transizione. In Libia lo scenario di una transizione lunga e sanguinosa non è ancora inevitabile, ma i rischi sono evidenti, se i libici avranno la pretesa di fare da soli e se gli europei, dopo aver salutato la caduta di Gheddafi, riterranno finito il lavoro.
A memoria, si ricordano nella storia recente rare eccezioni: la commissione per la verità  e la giustizia che accelerò la pacificazione del Sudafrica del dopo apartheid (peraltro non sconvolto da una guerriglia) o la Germania del dopo Muro, riunificata con una rivoluzione pacifica. I tedeschi dell’Est ci misero poco a convertirsi alla democrazia occidentale e a presentarsi tutti come sudditi oppressi.
Ma questi sono esempi particolari, eccezioni appunto, in una lunga storia di vittime inutili per la maggior parte, in quanto sacrificate quando le svolte epocali erano irreversibili e anche quando la resa dei conti o la vendetta personale non erano sempre giustificate dalle angherie subite. Questi fatti aumentano, se possibile, la responsabilità  politica e morale di satrapi e dittatori, spinti dalla perdita di contatto con la realtà  a una cieca e inutile difesa del potere in cui trascinano non solo il primo cerchio dei seguaci ma anche quei sudditi che non hanno avuto la forza di cambiare casacca. E a volte non serve nemmeno una tardiva conversione.
«Vae victis», guai ai vinti, ci ricorda Tito Livio, ma lo storico romano si riferiva alla guerra, alla sorte, spesso inevitabile, degli sconfitti da un nemico esterno e straniero. Nella storia delle rivoluzioni, le vittime si contano numerose all’interno dello stesso gruppo etnico o nazionale, in quanto «traditori» o «controrivoluzionari» o «complici» del regime o di un nemico esterno. Di certo, la ghigliottina non fu utilizzata soltanto per eliminare nobili, girondini e nemici della rivoluzione. La rivoluzione uccide anche i suoi poeti, come canta Andrea Chenier. Di certo, i milioni di vittime della rivoluzione bolscevica o maoista non erano tutti controrivoluzionari e avversari del nuovo corso. Anche nella nostra storia recente, dal Risorgimento alla Resistenza, se riletta dalla parte degli sconfitti, ricorrono episodi di esecuzioni di combattenti colpevoli soltanto di essersi battuti dalla parte sbagliata. C’erano italiani arruolati anche negli eserciti nemici, nell’armata borbonica o austro ungarica. Una recente pubblicistica sulla Repubblica di Salò e sui crimini commessi da partigiani, ha messo in evidenza — con la tentazione del revisionismo storico — sacrifici inutili, vendette e rese dei conti non giustificate dalla logica di guerra e di annientamento del nemico.
Per stare ad alcuni esempi recenti, basterebbe ricordare la sorte toccata ai civili serbi (oltre che a non pochi miliziani e soldati) colpevoli di appartenere al popolo degli aggressori nella sciagurata guerra civile della ex Jugoslava. Sconfitti su vari fronti, non vennero risparmiati dalle vendette delle loro vittime. Accadde nelle Krajne, quando tornarono i croati. Accadde a Sarajevo quando i musulmani bosniaci riuscirono a riprendersi i quartieri serbi, da dove i cecchini avevano infierito per quattro anni d’assedio su donne, vecchi, bambini. Accadde, e accade ancora oggi, in Kosovo, dove la minoranza albanese si è rifatta con gli interessi delle angherie subite da Belgrado. Per la verità  storica, è accaduto anche a Srebrenica, la città  simbolo del martirio dei musulmani bosniaci ordito dalle truppe del generale Mladic: nei mesi precedenti, anche i serbi pagarono il loro prezzo alla guerra civile, tanto che il capo dei volontari bosniaci dell’epoca, Naser Horic, è finito al tribunale internazionale dell’Aja.
Trattandosi di combattenti dalla parte sbagliata e di sconfitti, sembra quasi politicamente scorretto ricordarne almeno alcuni come vittime e non solo come colpevoli. Eppure un barlume di umanità  non dovrebbe spegnersi nemmeno di fronte alle vicende più torbide e efferate. Ricordo, per esserne stato testimone, la sorte toccata a decine di migliaia di hutu, tutti colpevoli di appartenere all’etnia che con l’appoggio dell’esercito aveva scatenato il più terribile genocidio della storia recente, il milione di tutsi del Ruanda, massacrati a colpi di machete in meno di tre mesi. Quando i tutsi vinsero la guerra civile e presero il potere a Kigali, gli hutu vennero ammassati nelle carceri. Molti confessavano i loro delitti e attendevano una sentenza. Altri raccontavano di essere stati costretti a uccidere. Ma fra loro, stipati come larve, senza nemmeno lo spazio per stare seduti, c’erano anche donne, bambini, persino neonati.
Coloro che erano riusciti a sfuggire alla prigione, vagavano nei campi profughi di Goma e Bukavo, al confine con la Repubblica democratica del Congo. Avevano perso tutto, tranne la speranza di un ritorno e la voglia di vendicarsi.
A posteriori, riemergono spesso dalla Storia comportamenti non irreprensibili dei vincitori in circostanze estranee alle esigenze e alle regole del conflitto. Non è accaduto soltanto nelle terribili rivoluzioni dei secoli scorsi o nei conflitti tribali o etnici. È accaduto anche a Berlino, quando i soldati dell’Armata rossa chiusero i conti con il nazismo. È accaduto anche in Normandia, durante l’eroica avanzata dei marines. Ricordare il passato non relativizza la gravità  delle rese dei conti in corso in Libia, così come la denuncia di quanto sta accadendo non sminuisce la giustezza della causa, il sogno di costruire un Paese libero e democratico, il sacrificio di tante vite per la caduta di una dittatura. Aiuta però a uscire dalle statistiche e dalla conta dei morti, dalla considerazione asimmetrica dei caduti di una parte e di un’altra, affinché un giorno le vittime appartengano tutte alla terra che le ricopre.

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