Sogni di democrazia fra le sabbie mobili

by Sergio Segio | 7 Agosto 2011 6:47

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 IL CAIRO.Abu Mohsen, con i suoi larghi baffi, lo conoscono tutti dalle parti di via Aziz Abasa, a Zamalek. Lo si trova, ad ogni ora, nella sua bottega senza porta sulla strada. Al mattino, di pomeriggio e a tarda sera. Avvolto in una nuvola di vapore caldo, muove avanti e indietro un vecchio ferro da stiro sugli abiti dei «signori» della zona. In verità  non sono neanche ricchi i suoi clienti, anzi. Ma possono permettersi di pagare quei due pound egiziani (circa 30 centesimi di euro) che Abu Mohsen chiede per stirare un paio pantaloni o una camicia. Meno dei cinque che pretendono alla lavanderia più vicina.

A tenergli compagnia è un ragazzino che per poche piastre fa le consegne a domicilio. Non guadagna tanto Abu Mohsen, tolte le spese riesce a mettersi in tasca ogni mese un migliaio pound (120-130 euro), qualche volta anche 1500, come in questo mese di Ramadan in cui i clienti sono più generosi. Al Cairo bastano appena per non morire di fame ma sono tanti di più del salario di una operaia in una fabbrica tessile del Delta dove un imprenditore riesce a imporre stipendi ben sotto il salario minimo.
«Zamalek è un quartiere abitato da impiegati, commercianti, da tanti signori e così un pochino di quella ricchezza riesco a farla scivolare nelle mie tasche, sto meglio qui che nella mia città  di origine, Tanta, dove non potrei guadagnarmi il pane», spiega Abu Mohsen prima di esplodere in una risata. Come lui vive, o meglio sopravvive, una larga porzione degli abitanti della capitale. Persone che la rivoluzione del 25 gennaio l’hanno seguita in tv più che farla in piazza Tahrir, a differenza della classe media più istruita e i giovani senza lavoro. «Mubarak non c’è più ma per noi poveri non è cambiato nulla – dice – dobbiamo sudare 10-12 ore ogni giorno, tutto l’anno, anche di Ramadan, per tirare avanti. Speriamo che il governo pensi anche a noi».
In Egitto, paese dalle forti sperequazioni sociali che ha visto, a causa anche del programma di privatizzazioni sponsorizzate dal liberista Gamal Mubarak, figlio e «delfino» del raìs, svendere importanti industrie nazionali (e con esse decine di migliaia di lavoratori) a imprenditori internazionali e locali senza scrupoli, da tempo si registra il progressivo impoverimento degli impiegati non qualificati e degli operai. Milioni di persone finite nel baratro della miseria a far compagnia ai più poveri. L’adala igtimaaiyyah (giustizia sociale) perciò è stata una delle richieste fondamentali della rivolta anti-Mubarak. Gli scioperi continui di un po’ tutte le categorie di lavoratori sono stati il segnale fin troppo chiaro del limite di sopportazione (e di sofferenza) raggiunto da tanti egiziani che chiedono, accanto alla libertà  e ai diritti, anche una nuova politica economica in grado di redistribuire la ricchezza nazionale. La ritrovata (ma non ancora piena) libertà  di stampa ha fatto conoscere la fortuna accumulata in trent’anni da Mubarak e dai componenti dell’entourage dell’ex presidente.
L’Autorità  del Controllo Amministrativo e dell’Autorità  di Indagine sui Fondi Pubblici ha accertato che solo nella sede di Heliopolis della Banca Nazionale d’Egitto i Mubarak avevano accumulato 29 milioni di euro. La first lady Suzanne Mubarak aveva sei conti bancari, uno dei quali presso la Banca della Biblioteca Alessandrina con oltre 100 milioni di euro. Alaa Mubarak, figlio «businessman» del raìs, possedeva più di 11 milioni di euro presso la Banca Nazionale d’Egitto e suo fratello Gamal otto conti in altrettante banche. Senza dimenticare le proprietà  immobiliari e le fortune accumulate dalla famiglia del «faraone» in giro per il mondo. Immense anche le ricchezze scoperte e, soprattutto, quelle ancora da scoprire dei tanti servitori fedeli del regime – quasi sempre palazzinari amici personali di Mubarak e del figlio Gamal – mentre non si fa parola degli enormi interessi economici dei militari che guidano la «transizione democratica» e che, certo non a caso, spingono per la stabilità  e il ritorno alla normalità .
Ma alla normalità  della miseria i poveri, vecchi e nuovi, non vogliono tornarci, Nessuno vuole fare la fine dell’operaia Mona Hawas, 44 anni e madre di tre figli, uccisa da un autocarro a Mansoura mentre manifestava in strada assieme alle sue compagne per ottenere il pagamento degli stipendi arretrati – 300 pound (50 dollari) al mese – da parte della proprietà  della sua fabbrica, la Mansoura Espana. «La giustizia sociale, la difesa dei diritti dei lavoratori, l’aumento reale del salario minimo sono le sfide che devono affrontare subito le forze protagoniste dell’insurrezione del 25 gennaio se vogliono che quel magnifico momento di protagonismo delle masse perda il suo slancio», spiega l’attivista Housam Hamalawi, uno dei primi ad utilizzare la rete per diffondere, già  da qualche anno, informazioni sulle lotte dei lavoratori oltre alle iniziative contro Mubarak.
«Stanno nascendo sindacati veri (la vecchia federazione è stata sciolta dal governo due giorni fa) ma il tempo stringe – avverte Hamalawi – un lavoratore che guadagna 190-200 pound al mese (24-25 euro) non può tornare a casa e chiedere alla sua famiglia di aspettare le elezioni, la formazione del parlamento e l’approvazione di nuove leggi per la giustizia sociale. Ha bisogno di risposte immediate ai suoi bisogni primari altrimenti il suo sostegno al proseguimento della rivoluzione verrà  a mancare».
Risposte che però non arrivano ancora. Il governo, nelle scorse settimane, ha aumentato il salario minimo a 700 pound (meno di 120 dollari) e ha promesso di portarlo a 1200 nei prossimi cinque anni. Ma il salto in avanti è molto inferiore alle aspettative dei lavoratori che devono fare i conti con il continuo aumento dei prezzi. La spesa pubblica per il 2011-2012 pari a 514 miliardi di pound (86 miliardi di dollari) annunciata dall’ex ministro delle finanze Samir Radwan rimane largamente insufficiente in settori primari come la sanità  e l’istruzione mentre l’aumento della tassazione per i redditi più alti non è destinata a portare benefici significativi a causa delle ricchezze enormi nascoste nelle banche nazionali ed estere.
Ad aggravare la situazione c’è la frammentazione dei partiti e dei movimenti di sinistra. L’adala igtimaaiyyah quindi resta un sogno nell’Egitto post-rivoluzionario. E ad avvantaggiarsene sono le formazioni islamiche, a partire dai Fratelli Musulmani, che con l’inizio del Ramadan (il 1 agosto) hanno di fatto cominciato la campagna per le elezioni legislative di novembre. «Distribuiscono pacchi con alimenti di base, zucchero, riso, farina, a chi non può permettersi di comprare quanto serve, si preoccupano di organizzare ogni sera in strada immensi iftar (il pasto che al tramonto interrompe il digiuno cominciato all’alba, ndr) per molte migliaia di persone nei quartieri più isolati, più poveri», spiega Ayman H., un giornalista free lance del Cairo. Soprattutto, arrivano alle ashwaaiyyat, le «zone di insediamento informale», inesistenti per lo Stato. Nell’area della Grande Cairo, centinaia di migliaia di egiziani chiusi in baracche di lamiera vivono senza alcun servizio pubblico e assistenza sociale. Il giornalista egiziano prevede che «se gli islamisti riusciranno a portare alle urne anche solo il 10% di queste persone ai margini che di solito non votano, assieme alla loro base abituale di consenso, allora si guadagneranno il controllo di almeno la metà  della Camera bassa (Majles)».
A quei poveri che sono stati «eroi» della rivoluzione e in prima linea contro Mubarak, l’attivista Mohammed Abul Gheit ha dedicato largo spazio sul suo blog con il post «The Poor First, You Bastards». Foto e storie in particolare di giovani ventenni, ma che ne dimostrano 40, giunti dalle bidonville di Imbaba, Boulak e Attaba a Piazza Tahrir per costruirsi anche un futuro di lavoro e dignità  e che invece vengono ignorate e dimenticate da tutte le forze politiche laiche e di sinistra. Sul suo blog Abul Gheit ha scritto: «I poveri in Piazza Tahrir ci sono venuti per farci capire che per loro vivere o morire è lo stesso, facciamo in modo che per tutti gli egiziani vivere non sia uguale a morire».

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RADUNI Sufi e cristiani copti insieme per un «Venerdì dell’amore»

 Sufi (mistici musulmani) e cristiani copti si ritroveranno venerdì prossimo in piazza Tahrir al Cairo per il «Venerdì dell’amore per l’Egitto». Contano di portare un milione di persone in strada le otto confraternite sufi e le diverse organizzazioni copte che sono dietro l’iniziativa che vuole essere una risposta alla manifestazione per l’Egitto «Stato islamico» organizzata la scorsa settimana dai Fratelli musulmani, i salafiti e gli ex jihadisti della Gamaa al Islamiyya. «Sarà  un venerdì per la solidarietà  tra musulmani e cristiani e in sostegno dello Stato civile», ha spiegato Alaa Aboul Azayem, leader dell’importante confraternita sufi «Azmeya» e del partito islamico-cristiano «Tahrir». Intanto per la prima volta i Fratelli Musulmani hanno scelto nuovi dirigenti del movimento attraverso elezioni pubbliche. Ieri sera, al City Stars Mall di Nasr City, gli islamisti hanno votato per individuare tre nuovi componenti della direzione in sostituzione di Mohammed Mursi, Essam el Erian e Mohammed Saed El Katatny ora alla guida del Partito Libertà  e Giustizia (il braccio politico dei FM) che punta a ottenere la metà  dei seggi in Parlamento alle elezioni previste a novembre.

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