Siria, l’Italia richiama l’ambasciatore
GERUSALEMME – Per protestare contro l’«orribile repressione» messa in atto dal regime siriano contro i suoi cittadini in rivolta, il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha richiamato il nostro ambasciatore a Damasco, proponendo a tutti gli altri stati membri dell’Unione europea di fare lo stesso. Ma l’appello del capo della Farnesina è caduto nel vuoto. «Su una misura come il richiamo dell’ambasciatore, ogni paese decide per sé», ha commentato il portavoce di lady Catherine Ashton, la baronessa britannica responsabile della diplomazia europea. Così, in mancanza di una «decisione generalizzata», la mossa di Frattini è rimasta isolata.
Non è la prima volta che il governo italiano si dissocia, nei fatti, dal contesto europeo cui pure dovrebbe far capo. E’ successo più volte, in passato, quando, in diversi fori, s’è trattato di pronunciarsi su vicende del conflitto arabo-israeliano. Ed è successo, più recentemente, con la tentennante adesione all’intervento internazionale contro la Libia. Stavolta, con la Siria, sembra che Frattini abbia voluto bruciare le tappe, adottando una misura grave, quale è nel linguaggio diplomatico il richiamato dell’ambasciatore “per consultazioni”, senza il necessario concerto con l’Unione Europea. Che, infatti, ha subito sottolineato di aver lasciato al suo posto il suo inviato.
Detto delle incongruenze della linea italiana, bisogna tuttavia aggiungere che la cosiddetta comunità internazionale non ha mostrato una maggiore coerenza nei confronti della vicenda siriana. Mentre l’esercito e le milizie di Bashar el Assad, massacrano i cittadini siriani (ieri altri 24 morti nella città martire di Hama e altrove hanno fatto salire il numero delle vittime civili a 136 negli ultimi tre giorni, su un totale di oltre 1600 morti, 3000 scomparsi e 12 mila arrestati dall’inizio della protesta, a metà marzo, cui vanno aggiunti 369 poliziotti e soldati uccisi negli scontri), mentre continua a scorrere questo fiume di sangue, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si riunisce a vuoto, incapace di elaborare una condanna comune, prigioniero com’è delle minacce provenienti dalla Russia e dalla Cina di bloccare con il loro veto qualsiasi risoluzione che intimi al raìs di Damasco di cessare la carneficina, o ne subirà le conseguenze.
La disparità di trattamento, ovverosia il cosiddetto “doppio standard” applicato contro paesi ugualmente colpevoli di gravi violazioni del diritto internazionale, non è mai stata così palese come nel caso del regime libico e di quello siriano. Il governo britannico, infatti, frena sulla possibilità di un intervento militare in Siria, così come la Francia, a suo tempo così risoluta nel condannare e perseguire Gheddafi, ma oggi assai cauta con Assad: «Le situazioni in Siria e in Libia non sono simili – spiega il portavoce del governo -. Nessuna opzione militare è prevista contro Damasco», ha detto. «Nessun coinvolgimento militare americano» gli ha fatto eco il Supremo dell’Esercito Usa Mike Mullen.
D’altronde, di fronte all’enorme capitale politico (ed economico) sperperato nella “campagna di Libia”, chi tra le potenze occidentali oserebbe pensare di imbarcarsi in una nuova avventura militare senza chiari obbiettivi e chiari interlocutori sul terreno? È questa debolezza intrinseca del campo occidentale a rendere allo stato insuperabile l’ostruzionismo della Russia che ieri ha ripetuto il suo “niet” a qualsiasi risoluzione che “riproduca lo scenario libico”.
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