Siria: il pugno di ferro dei Bashar sulla rivolta
Prima di partire per la Siria, assieme agli altri ragazzi del progetto ‘Dialoghi in Cammino‘, (promosso dal Servizio Emigrazione e Solidarietà Internazionale della Provincia Autonoma di Trento, assieme a Cinformi e al Centro per la Formazione alla Solidarietà Internazionale), mi ero documentato. Avevo letto che Bashar el Asad era il secondogenito di Hafiz al Asad, Presidente dal 1971 al 2000, anno della sua morte. Destino singolare, quello di Bashar, avviato alla carriera da medico in Europa e con scarso interesse per la politica, trovatosi a soli 34 anni Presidente della Repubblica per via della morte in un incidente stradale del fratello maggiore Basil, inizialmente destinato a succedere al padre alla poltrona presidenziale.
Militare di professione, esponente del partito Ba’ath ed aderente alla minoranza religiosa alawita, il padre Hafiz mantenne il potere attraverso la repressione in uno stato di polizia. Ad una certa ripresa economica e al rafforzamento infrastrutturale fecero da contraltare la soppressione delle libertà individuali e la mancanza di un pluralismo politico. Dittatura, per dirla con una sola parola. Il malcontento per la quale ebbe come culmine la rivolta del 1982, repressa nel sangue con l’aiuto dell’artiglieria, in quello che passò alla storia come il massacro di Hama.
La stessa Hama, città siriana a nord di Damaso, che giorno dopo giorno sta tristemente guadagnando gli onori della cronaca più attuale. A quasi trent’anni di distanza, nella ribattezzata Primavera araba che ha rinvigorito il vento della libertà dal Maghreb al Medio Oriente, sembra ripetersi il fervore di quegli anni. Come a voler sottolineare che i colpi di cannone e le granate, nel 1982, se arrivarono a radere al suolo l’intera città , non poterono scalfire l’ardore dei sopravvissuti e dei loro figli.
Oltre a documentarmi, avevo anche deciso che una volta arrivato in Siria mi sarebbe piaciuto saperne di più, possibilmente attraverso la voce della gente. Si sa, una cosa è apprendere dai libri, da internet e dai giornali, un’altra è calarsi di prima persona nella realtà in questione. Nella mia inesperienza non stavo tenendo conto che la realtà in questione differiva diametralmente da quella in cui sono nato e cresciuto. Non avrei mai immaginato che una semplice domanda, come quelle che dai noi si fanno al bancone del bar mentre si aspetta di ordinare il caffè, come “Allora, che mi dici dell’intervento del ministro?” oppure “Non ti sembra azzardata l’ultima manovra del governo?” potesse essere una domanda pericolosa. Non per noi che la stavamo ponendo e che nel giro di pochi giorni ce ne saremmo tornati a casa, ma per chi si trovava nella situazione di ascoltarla. Fu una delle prime lezioni che apprendemmo in Siria: non nominare il nome del Presidente invano. La maniera più efficace di rispettare un siriano, convenimmo col gruppo una volta tornati, è quella di non coinvolgerlo in situazioni indesiderate con la nostra curiosità .
In Siria ci eravamo andati con un progetto intelligente: quello di voler creare, sul territorio trentino, un clima di apertura favorevole alla nascita ed al mantenimento di un dialogo tra gli stessi trentini ed i nuovi cittadini che abitano il territorio. La Siria in tutto questo ha di che insegnare. Un Paese, culla della civiltà , dove da millenni convivono pacificamente genti dall’origine e dal credo differente: sunniti, alawiti, drusi, caldei, armeno-cattolici, melchiti, maroniti, ortodossi, protestanti e altri ancora. Il viaggio in terra siriana, dunque, fungeva da nostro laboratorio di dialogo e convivenza.
Ad un anno dalla mia ultima visita in Siria e a distanza di migliaia di chilometri, leggere di quando sta avvenendo oggi, tra i cecchini del governo che sparano sui civili reclamanti libertà ed i carri armati che avanzano tra i cadaveri ammassati, fa male soprattutto per un motivo: l’immagine distorta che della Siria si imprime negli occhi del mondo. L’immagine di un catino ribollente odio e violenza che non rende in alcun modo giustizia ad un popolo in grado come pochi di insegnare i concetti di convivenza pacifica e di civiltà , nonostante un passato (ed un presente) di dittature, invasioni e conquiste straniere.
Chissà , nel cuore della protesta, che fine avrà fatto quella Nissan, se qualcuno abbia ridotto in mille pezzi l’immagine di Asad, frantumando i vetri con una pietra; e se quel qualcuno abbia pagato il gesto con l’arresto, la tortura o la stessa vita. Tra i comunicati di cordoglio e condanna della comunità internazionale, poco attenta e poco desiderosa di sporcarsi le mani in un paese che, a differenza della Libia, non emette odore di oro nero. Forse anche per questo le vendite di armi italiane a Bashar el Asad passano inosservate, anche ai media.
(* Inviato di Unimondo in Perù)
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