Siria, il mondo arabo abbandona Assad

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GERUSALEMME – Con una mossa che marca un ulteriore smottamento del regime siriano verso l’isolamento internazionale, non soltanto nei confronti del’Occidente ma nell’ambito della stessa comunità  dei paesi arabi, il sovrano saudita, re Abdullah bin Abd el Aziz, ha condannato, come «inaccettabile» la sistematica repressione della protesta civile per mano dei servizi di sicurezza siriani, ammonendo il raìs di Damasco, Bashar Al Assad, a promuovere un programma di «vere riforme e non semplici promesse, prima che sia troppo tardi».
Le parole insolitamente dure della dichiarazione; la scelta di accompagnare l’avvertimento con la decisione di richiamare l’ambasciatore saudita a Damasco “per consultazioni”, decisione prontamente condivisa anche dal Kuwait e dal Bahrein, due “satelliti” che, assieme all’Arabia Saudita, fanno parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo: tutto questo segna una rottura tra Riad e Damasco che potrebbe avere gravi conseguenze.
Non che i rapporti tra Siria ed Arabia Saudita siano stati mai idilliaci. Al contrario, nel processo di polarizzazione in atto in Medio Oriente negli ultimi 20 anni, le due capitali hanno trovato collocazione in campi contrapposti: Damasco ha scelto quello che un tempo veniva chiamato il fronte del rifiuto, e che Bush ha ribattezzato “Stati canaglia”, in compagnia dell’Iran e delle milizie satelliti (Hamas, Hezbollah). Riad è sempre stata alleata di Washington. Naturalmente, non potendosi combattersi apertamente, Siria e Arabia Saudita hanno provato a lavorare insieme, per esempio nel recente tentativo, fallito, di risolvere la crisi libanese.
Ora, decidendo di rompere un silenzio carico di apprensione, mantenuto sin dall’inizio della protesta siriana, a metà  marzo, re Abdullah ha gettato sulla bilancia il peso della sua leadership non soltanto politica ma religiosa, di “guardiano” dei luoghi santi (la Mecca e Medina) e, in un certo senso, di capo della comunità  dei musulmani di credo sunnita. E qui bisogna ricordare che la Siria è un paese a stragrande maggioranza sunnita dominato da 40 anni da un clan, gli Assad, appartenente alla minoranza alawita, una setta facente capo alla componente sciita dell’Islam. Dunque, un intervento, quello del sovrano saudita, che sembra sottolineare le ragioni dell’appartenenza alla stessa fede religiosa, nel contesto di uno scontro tra alawiti e sunniti, più che le rivendicazioni di libertà , democrazia e dignità  umana.
D’altronde, re Abdullah non mai ha mostrato alcun interesse verso la “primavera araba”, anzi ne ha sempre diffidato, temendo che il contagio potesse toccare il suo paese.
E’ probabile che Assad, anche dopo la presa di posizione saudita, non cambierà  la sua strategia. Il che vuol dire: promesse vuote da un lato, per tranquillizzare la comunità  internazionale e feroce repressione della protesta, dall’altro. Come quella in atto a Deir az Zur, la quinta città  del paese, dove secondo alcune testimonianze i servizi di sicurezza, appoggiate dalle truppe corazzate avrebbe già  provocato 65 morti, tra cui una madre e i suoi due bambini. In serata da Damasco è giunta la notizia che il raìs ha ordinato la sostituzione del ministro della Difesa Al Habib. Ma si tratta di un modesto comprimario, essendo il controllo dell’apparato militare nelle mani del fratello di Assad, Maher, e del cognato, Assef Shawkat.


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