Siria, carneficina ad Hama tank e razzi sulla folla “I morti sono più di cento”

by Sergio Segio | 1 Agosto 2011 7:30

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Majdal e-shams (confine tra siria e israele) – Tace la collina delle grida. Tace dopo l’ultima strage compiuta alla vigilia del Ramadan dalla tirannia di Damasco. Siamo lontani dalla città  martire di Hama, dove l’apparato opaco e arrogante delle forze di sicurezza siriane ha giustiziato ieri più di un centinaio di oppositori disarmati usando i cannoni e le mitragliatrici pesanti. Ma da Majdal e-Shams il confine con la Siria è a un tiro di schioppo, lo scorgi da ogni spazio aperto. Fino all’avvento dei cellulari e di Internet, dalla vicina collina delle grida, le famiglie di drusi che nel 1967 furono divise dall’occupazione israeliana comunicavano con chi era rimasto dall’altra parte delle alture del Golan usando un megafono.
Qui, l’eco della strage di Hama giunge per vie indirette, ma è ben eloquente, quasi tangibile. La intercetti, per esempio, negli sguardi terrorizzati di chi ha un parente in Siria. «Mio figlio studia ingegneria all’Università  di Damasco, e dice che adesso ha paura perfino di mettersi in viaggio per tornare a casa», dice Talal, un uomo dai baffi ispidi e i capelli lanosi, che chiede di non trascrivere il suo cognome. Ci invita a casa, e accende la tv. I canali israeliani mostrano ininterrottamente i video più cruenti dell’attacco di ieri contro la folla di manifestanti che protesta contro il regime di Damasco. Come sempre sono immagini mosse, perché girate con i cellulari. Sono le sole, poiché per i giornalisti la Siria è terra vietata. Stavolta tuttavia, oltre a cecchini appostati sui tetti delle case, contro i manifestanti l’esercito siriano ha usato l’artiglieria pesante, ha aperto il fuoco con i cannoni dei carri armati. E li vedi i tank che sparano sulla folla, falcidiando vite. Le senti le grosse mitragliatrici con il loro suono che è quasi un rimbombo, sordo e metallico.
Sempre via telefono, da Hama, assediata dall’esercito siriano da più di un mese, arrivano le prime testimonianze: «All’alba ho cominciato a sentire distintamente il rumore dei bombardamenti. Hanno attaccato da quattro direzioni, sparando a casaccio. Il numero delle vittime è alto, ci sono cadaveri in strada non ancora rimossi. I morti sono almeno un centinaio. E i feriti sono numerosissimi, tra cui molte donne e bambini», racconta un abitante di questa città  che conta circa 800mila persone e che si trova 270 chilometri a nord di Damasco. «I carri armati sparano quattro colpi al minuto e i principali quartieri della città  sono ormai senza luce né acqua», dice un medico, aggiungendo che l’ospedale dove lavora è stato circondato dai blindati.
Nel pomeriggio, dopo ore di bombardamenti, i cittadini di Hama si sono barricati in casa, con gruppi di giovani che hanno approntato barricate usando tutto quello che trovavano, anche materassi, a difesa dei propri quartieri. «I ragazzi stanno tentando di proteggere le loro famiglie, perché temono che le forze di sicurezza e polizia segreta vadano casa per casa, a prenderli uno per uno», sostiene un altro testimone.
L’attacco di ieri è ancora più atroce perché sferrato alla vigilia del mese sacro per i musulmani. Ma il Ramadan non metterà  fine alle proteste contro il presidente Bashar Al Assad. Attivisti e oppositori hanno anzi fatto sapere che la rivolta procederà  senza sosta, nonostante le difficoltà  del digiuno e delle infernali temperature estive. «Stiamo organizzando dei sit-in notturni, oltre a cortei che partiranno dopo l’iftar, il pasto che rompe il digiuno», spiega l’attivista Bassem Khaddoun. «Una cosa è certa: stavolta non finirà  come nel 1982». Allora, sempre Hama fu teatro di una sanguinosa repressione condotta da Hafes Al Assad, il padre dell’attuale presidente. Per sedare la rivolta della maggioranza sunnita della città  contro l’élite alawita a cui appartengono gli Assad, fu scatenata una durissima offensiva in cui rimasero uccise ventimila persone.
Ieri, le forze governative hanno seminato morte anche altrove: cinque persone sono state uccise a Homs, tre nella provincia nord-orientale di Idlib, ventuno a Deir Ezzor, sei a Harak, nel sud, e una a Al Bukamal. I tank siriani sono entrati in azione anche in periferia di Damasco, a Moadamiyya, e le forze di sicurezza hanno lanciato gas lacrimogeni a Daraya, un altro quartiere della capitale dove un migliaio di persone erano scese in piazza per dimostrare sostegno alle città  bombardate. Nel sobborgo di Harasta, almeno una quarantina di manifestanti sono rimasti feriti dopo che la polizia ha lanciato bombe imbottite di chiodi per disperdere una protesta. Ad Hama, intanto, dove molti feriti moriranno nelle prossime ore o nei prossimi giorni per le pallottole e gli obici sparati dai soldati siriani, il bilancio delle vittime cresce di ora in ora. L’ultimo bollettino fornito dalle associazioni umanitarie parla di 136 morti, il bilancio di una delle giornate più cruente da quando è iniziata la protesta il 15 marzo. Tragicomica, l’agenzia ufficiale siriana Sana addossa la responsabilità  degli scontri «a gruppi armati», e parla soltanto della morte di due militari nell’incendio di posti di polizia.
Arrivano intanto altre testimonianze. Atroci come le precedenti. C’è quella di Shamir, soldato siriano che ha deciso di disertare quando gli è stato ordinato di sparare sulla folla disarmata. Dice Shamir: «Chi si rifiuta di obbedire e di aprire il fuoco sui civili viene a sua volta mitragliato da un altro fronte di soldati più in retrovia». Come lui, 57 soldati di Assad, compresi tre ufficiali, sono passati a sostenere i manifestanti a Deir Ezzor.
Unanime è stata la condanna dell’Occidente: Francia, Gran Bretagna e Italia hanno immediatamente stigmatizzato la sanguinosa repressione. Quanto a Barack Obama, ha espresso «orrore» per le violenze in Siria. «È giunta l’ora di isolare Bashar Al Assad», ha detto il presidente americano.

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