Se l’ONU riconoscesse lo stato palestinese

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Essere ammessi come membro delle Nazioni Unite, e non più come semplice “osservatore”. Il secondo obiettivo è irraggiungibile, e i palestinesi ne sono consapevoli: infatti, per l’ammissione di nuovi stati all’Onu è necessaria non solo una maggioranza di due terzi all’Assemblea Generale, ma anche un voto favorevole del Consiglio di sicurezza. Ora, si sa già  che gli Usa porranno il veto, bloccando qualunque ammissione.
Resta il riconoscimento della Palestina come Stato. Che valore ha, e quali possono essere le sue conseguenze pratiche? Prima di rispondere, riassumerò alcuni fatti di base.
La Palestina, si sa, è composta dalla Cisgiordania inclusa Gerusalemme est (circa 3 milioni di abitanti) e dalla Striscia di Gaza (1.600.000 di abitanti), due zone separate da territorio israeliano. Entrambe le zone dal 1967 sono sotto l’occupazione bellica israeliana, anche se da Gaza le forze armate israeliane si sono ritirate nel 2005 (ma controllano gli accessi alla Striscia, lo spazio aereo e le acque territoriali). Fatah domina la Cisgiordania, mentre Hamas domina Gaza: le due dirigenze palestinesi sono ai ferri corti, lacerate da dissidi ideologici e politici insanabili. In Cisgiordania l’Autorità  palestinese è riuscita a costruire un’amministrazione pubblica e un sistema economico abbastanza efficienti, come attestato dalla Banca Mondiale e dall’IMF e ribadito giorni davanti al Consiglio di Sicurezza. Inoltre l’autorità  palestinese controlla il territorio della Cisgiordania, almeno in parte, perché l’esistenza degli insediamenti israeliani e le truppe israeliane che li proteggono fanno sì che il 60% del territorio sia di fatto sotto il dominio militare israeliano.
La Cisgiordania costituisce uno Stato? Ritengo di sì, perché ha una struttura centrale organizzata (l’Autorità  palestinese) che esercita un controllo effettivo su parte della popolazione stanziata nel territorio, anche se sotto occupazione bellica straniera e con confini incerti. Inoltre intrattiene regolarmente rapporti internazionali, concludendo accordi (il più famoso è quello di Oslo, del 1993) e inviando rappresentanze diplomatiche presso numerosi Stati (tra cui molti paesi occidentali, inclusa l’Italia, che ha elevato il rango del rappresentante palestinese a Roma a quello di ambasciatore). Dunque, la Palestina, finora riconosciuta da 122 membri dell’Onu, ha tutti i requisiti per essere considerata come un vero e proprio Stato.
Cosa cambia se a settembre l’Assemblea Generale dell’Onu approva una risoluzione che definisce la Palestina uno Stato? Beninteso, si tratterebbe di un risoluzione giuridicamente non vincolante. Nondimeno cambierebbero varie cose sul piano politico, e tutte a vantaggio della Palestina (e della messa in moto del processo di pace). Primo, il “riconoscimento” significa che sarà  difficile d’ora in poi contestare il carattere statuale della Palestina. Certo, il riconoscimento come tale non “crea” la personalità  giuridica internazionale; ma se è conferito da numerosi membri dell’Onu costituisce un’importante attestazione della statualità  dell’ente riconosciuto. Secondo, presumibilmente la risoluzione affermerà  che la Palestina esiste nei confini pre-1967 ed include Gerusalemme est, così ribadendo una tesi palestinese fortemente oppugnata da Israele. Terzo, la risoluzione non parlerà , si presume, di quella smilitarizzazione della Palestina, richiesta da Israele come condizione essenziale per qualsiasi accordo. Quarto, sarà  più difficile per Israele continuare la sua pluridecennale e illegale occupazione bellica: si porranno le premesse per un ritiro di Israele almeno dalla Cisgiordania e da Gerusalemme est e per l’acquisto, da parte del governo palestinese, della piena sovranità  sul suo territorio. Quinto, Mahmoud Abbas avrà  in mano carte più forti per negoziare scambi di territori, mutamenti di confine o cospicui indennizzi, oltre a concordare lo status internazionale di Gerusalemme. Sesto, in seno all’Onu la Palestina diventerà  uno “Stato osservatore”, e quindi avrà  una maggiore forza politica e morale. Settimo, il procuratore della Corte Penale internazionale, cui l’Autorità  palestinese ha chiesto nel gennaio 2009 di accedere allo Statuto della Corte, non potrà  più traccheggiare come ha fatto finora, e sarà  costretto finalmente a rispondere sì o no. Se, come dovrebbe, risponde affermativamente, lo Stato palestinese può ribadire la richiesta che siano sottoposti alla giurisdizione della Corte tutti i crimini commessi sul territorio palestinese dal 2002, quindi anche i crimini attribuiti ad Israele da vari rapporti internazionali. Quest’ultima è un’arma possente, che Israele teme fortemente, e il cui possibile uso può indurre Netanyahu ad aprire negoziati sui vari problemi, incluso quello del ritorno dei profughi palestinesi nelle terre in cui vivevano prima di fuggire tra il 1948 e il 1967.
Naturalmente il successo della risoluzione pro-palestinese dipende dal modo in cui Abbas intende comportarsi nei confronti di Hamas. È un fatto che Hamas è politicamente allineata sulle posizioni dell’Iran e della Siria, non esita a lanciare indiscriminatamente razzi contro la popolazione israeliana e persegue una assurda volontà  di distruzione di Israele. Perciò è stata definita sia da Gerusalemme sia da Washington «una organizzazione terroristica». L’Autorità  palestinese sarebbe saggia se, chiedendo il riconoscimento collettivo dello Stato palestinese, si limitasse ad indicare la Cisgiordania e Gerusalemme est. Oramai Gaza è un’entità  a sé, un “governo di fatto” che né l’Autorità  Palestinese né Israele riescono a controllare politicamente e militarmente. È una spina nel fianco sia di Israele sia dell’Autorità  Palestinese, e costituisce un grave problema di cui prima o poi dovrà  farsi carico tutta la comunità  internazionale. Molti Stati occidentali potrebbero votare a favore della risoluzione pro-palestinese se Gaza venisse lasciata fuori, a meglio sottolineare che Abbas è un moderato che persegue fini pacifici e non intende negare l’esistenza dello Stato di Israele e tanto meno compiere atti terroristici contro quello Stato.


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