by Sergio Segio | 21 Agosto 2011 6:55
A volte, l’inconcludenza e la debolezza possono essere rivelatrici più della determinazione e della forza. Nella vita delle persone, come in quella delle nazioni. E così l’inadeguatezza del governo nel fronteggiare la crisi che sta scompaginando l’Occidente – inadeguatezza nella previsione, nella gestione, nel calcolo delle conseguenze – costringendo le istituzioni europee allo strappo di un brusco e inconsueto intervento, ci ha posto di fronte a uno stato di cose che non possiamo ignorare.
È messo a rischio il principio di sovranità degli Stati, ha scritto Roberto Esposito, aprendo un fronte d’analisi su cui molti commentatori si sono esercitati in questi giorni. E di sicuro qualcosa di profondo sta mutando nell’equilibrio dei poteri che reggono l’Occidente, mentre l’impressione di un ritrarsi sconfitto della politica – di ogni politica – innanzi all’invasività di un gioco finanziario autoreferenziale, ingordo e tendenzialmente antidemocratico appare sempre di più come un destino comune, e non soltanto italiano.
E però vi sono due elementi da tener presenti, che rendono il quadro forse meno fosco, e comunque più complicato di quanto non si creda.
Il primo riguarda il fatto che la rivoluzione tecnologica ha trasformato le basi sociali delle nostre democrazie. Questo avrebbero dovuto spiegarci gli economisti, se l’economia fosse ancora una scienza sociale e non solo una modellistica matematica. Il tessuto democratico classico aveva al suo centro il vecchio lavoro produttivo di merci materiali – sia dal lato operaio che da quello dell’impresa, dei mezzi di produzione – e aveva come punto di riferimento un capitale industriale poco mobile, fortemente radicato nel territorio e nella sua storia demografica e sociale.
Questo mondo è in via di estinzione. Il nuovo lavoro ad alta intensità tecnica e conoscitiva – quello su cui si fonda sempre di più la cittadinanza contemporanea (se vogliamo conservare un rapporto fra cittadinanza e creazione di ricchezza), quello cui affidiamo il nostro futuro – ha bisogno, per svilupparsi, di condizioni che solo capitali molto più duttili, reattivi e versatili sono in grado di assicurare: in altri termini, di una rete di mercati finanziari. Si stabilisce così una relazione strettissima fra innovazione tecnologica e trasformazione finanziaria dell’economia; e dunque, di conseguenza, fra lavoro e capitale finanziario: un nesso che si dimostra sempre di più la base stessa delle società contemporanee, dove la finanziarizzazione diventa parte integrante del quadro democratico. Senza lavoro non c’è democrazia (una Repubblica fondata sul lavoro, come dice la Costituzione). Ma oggi non c’è lavoro senza innovazione tecnologica e intensità di conoscenze. E queste a loro volta non si creano senza capitale e mercati finanziari. Il problema non sta dunque nella separazione – nel presunto abisso – fra politica ed economia, che se ne andrebbero ciascuna per le sue, l’una sempre più armata, l’altra più impotente, ma al contrario si trova nelle modalità del loro intreccio. La verità è che siamo entrati in una nuova epoca, segnata non dalle dicotomie ma dalle integrazioni: l’età della democrazia complessa.
Il secondo elemento, strettamente connesso al precedente, riguarda l’immodificabilità delle strutture economiche da parte della politica. La vulgata ideologica che ci ha sommerso per oltre un ventennio (altro che fine delle ideologie!) pretendeva che l’anarchia capitalistica globale che abbiamo sperimentato negli ultimi decenni fosse l’unica risposta possibile, e che l’assoluta anomia dei mercati coincidesse con il miglior mercato pensabile. Come se la globalizzazione dovesse inevitabilmente portare con sé, quale conseguenza inevitabile, una totale assenza di regole, e un ritrarsi sconfitto della politica da ogni luogo che contasse per dare una forma alle nostre vite.
C’è voluta una crisi mondiale per capire che non era così; che tanto selvaggio anarchismo era solo l’esito storico, del tutto provvisorio, della fase d’avvio della rivoluzione tecnologica – esattamente come era accaduto, due secoli fa, con la rivoluzione industriale – e che molte strade, anche assai diverse fra loro, ci si aprono davanti. Esattamente come è già successo di fronte alla rivoluzione industriale, sta alla politica disegnare lo scenario che ci aspetta: aprire una grande stagione di riequilibrio e di assestamento globale, di crescita sostenibile e di riduzione delle diseguaglianze – come è realistico e del tutto alla nostra portata – o rimettersi ostinatamente, come se nulla fosse, sulla via della rottura e della lacerazione. Il modo di produzione capitalistico ha questo che lo rende unico nella storia, e, per ora, insostituibile: di avere confini (empiricamente e concettualmente) inesplorati, dove è possibile coniugare in molti modi, anche inediti, profitto ed equità . Certo, si è creata una dissimmetria fra la pesante localizzazione “nazionale” del comando politico, e la leggerezza globalizzata della nuova economia. C’è chi ha cercato di incunearsi in questo vuoto. Colmarlo non è impossibile: una nuova sfida per una politica all’altezza dei tempi, e non un ostacolo da trasformare in un alibi. L’Italia è troppo piccola per immaginarsi di trovare da sola una soluzione; ma è abbastanza grande da non sfuggire alla responsabilità di cercarla. Che questo obiettivo oggi appaia del tutto fuori dei nostri orizzonti è un’altra colpa – forse la più grave – di chi ci ha governato in questi anni.
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