Saldi folli a «Pazza Affari»: chi non vale il proprio tesoro

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Compagnie di assicurazioni che capitalizzano meno del valore dei propri immobili; società  industriali che non valgono gli impianti; banche che hanno appena ricapitalizzato ma sul cartellino del prezzo i soldi freschi sono spariti. Verrebbe da domandarsi con un gioco di parole: siamo in “Pazza Affari”?
Eppure le cose stanno proprio così. Prendiamo le Assicurazioni Generali: un tempo la compagnia era definita la Regina della Borsa. Prima della grande crisi, quella del 2007 iniziata con i subprime americani, valeva in Borsa 42 miliardi. Ieri, dopo aver perso il 4,5%, ne valeva 18. Il Leone di Trieste ha asset investiti per oltre 470 miliardi (l’equivalente di un terzo del Pil italiano), dei quali almeno 25 in immobili ed è appena diventata azionista di maggioranza di Citylife. Possibile che l’intera compagnia possa essere comprata con un assegno che vale due terzi del 7% circa degli investimenti propri, pari più o meno a 325 miliardi?
E che dire di una banca come Unicredit, che ha interessi in 22 Paesi e una rete in 50 mercati? Quando, nel maggio 2007, è stata avviata la fusione con Capitalia l’istituto di Piazza Cordusio valeva circa 70 miliardi, quello romano 17-18. Oggi il prezzo in Borsa del predatore, che nel frattempo ha rafforzato il patrimonio con aumenti per 6 miliardi, equivale a quello di allora della preda: dopo la caduta di ieri del 7,2% la capitalizzazione è pari a circa 17,5 miliardi. Possibile che del “fiero pasto” sia rimasto solo il cibo? Per di più di un gruppo che può vantare un tesoro di 60 mila opere d’arte? E cosa dire di Intesa Sanpaolo? Quando si è cominciato a parlare di nozze, nella primavera del 2006, la banca milanese quotava circa 34-35 miliardi, la torinese 28. In tutto il valore di Borsa dell’istituto unito, che al debutto in Piazza Affari nel gennaio 2007 valeva 67 miliardi e che ha da poco concluso un rafforzamento da 5 miliardi, ieri dopo il calo di quasi il 10% viaggiava sotto i 20. Metà  circa della sola Banca Intesa di allora. Possibile per un gruppo che, tanto per citare qualcosa di più «concreto» del denaro, ha una collezione di capolavori che annovera perfino Caravaggio, senza trascurare Balla, Boccioni, Carrà  o De Chirico? Valutazioni impossibili, certo, ma i nomi danno forse più senso al nonsense delle quotazioni di Borsa.
Stupisce di meno forse se si pensa che ai dati di allora la maxi fusione fra Unicredit e Capitalia aveva dato vita al «primo gruppo bancario dell’Eurozona, settimo al mondo», subito dietro il colosso inglese Hsbc. Mentre oggi la capitalizzazione di tutto il settore bancario italiano vale due terzi quella di Hsbc, che pure ieri ha perso il 5%. E così i paradossi allo sportello quasi non si contano: basti pensare al Banco Popolare, che ha realizzato un aumento da 2 miliardi all’inizio dell’anno e dopo aver perso ieri il 7,7% vale 2,2 miliardi, mentre la sola controllata (in modo pressoché totale) Credito Bergamasco, che ieri in controtendenza ha guadagnato l’1,65%, ne capitalizza 1,44. O a Mediobanca, che ieri ha ceduto il 2% circa e vale 5,5 miliardi, metà  di quanto raccoglie la sola controllata Chebanca! Se poi si esclude dalla capitalizzazione la partecipazione in Generali, pari al 13,2%, la banca d’affari fondata da Enrico Cuccia «prezza» oggi 2,3 miliardi circa.
Ma se la Borsa è pazza con le banche, spesso non lo è meno con le società  industriali. Si prenda per esempio la Fiat: ieri ha lasciato sul terreno quasi il 12% e capitalizza circa 5 miliardi, circa metà  di quanto sono valorizzati in bilancio i suoi impianti. Per comprare tutta Telecom (ieri meno 4,1%) bastano 11 miliardi: prezzo alto o basso? Debiti a parte la sola rete, quando se ne è parlato, si stima valga il 20% di più. E l’Eni? Il nostro colosso petrolifero, ieri anch’esso giù di quasi il 5%, è ancora il re del listino con 53 miliardi di capitalizzazione, anche se la crisi dal 2007 gli ha fatto perdere per strada circa 50 miliardi. Oggi però vale meno di un sesto del valore attuale delle «sue» riserve certe di petrolio. E circa un quinto di Exxon Mobil. Che, come Apple, quota «solo» 100 miliardi in meno di tutta, ma proprio tutta, «Pazza Affari».


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