Rigore e cura di ogni dettaglio ecco cosa mi ha insegnato la mia amicizia con Peppe

by Sergio Segio | 1 Agosto 2011 7:26

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L’ultimo suo messaggio mi era arrivato solo qualche giorno fa. Leggendo i ricordi dedicati a D’Avanzo si sente chiaramente l’affetto per l’uomo, la stima per il giornalista, la gratitudine per il maestro. Il vuoto che lascia D’Avanzo nel giornalismo italiano è enorme. Qualcosa in più della capacità  di indignazione. La sua forza risiedeva nella rigorosa disciplina del dato e nella capacità  narrativa di raccontare il meccanismo. In altre parole, fare il giornalista. Peppe lo mostrava chiaramente che dar vita a un’inchiesta giornalistica non significa semplicemente andare a leggere il casellario giudiziario e sbattere la notizia in prima pagina, ma capire i meccanismi che stanno dietro alle vicende, analizzare i dati, collegare i fatti. Questo faceva con sapienza D’Avanzo. Ed era questo che gli permetteva di non accanirsi sulle persone, piuttosto sui loro sulle loro azioni. Sembra un dettaglio, questione di lana caprina, epistemologia per scuole di giornalismo. Tutt’altro. E’ ciò che fa la differenza tra la militanza e una inchiesta. D’Avanzo infatti detestava la superficialità  che porta spesso a creare processi mediatici, che poi si sgonfiano senza nulla di fatto, lasciando dietro di sé solo vittime del cattivo giornalismo, per le quali una smentita non potrà  mai cancellare l’onta della notizia. Lui aveva bisogno di fatti, di prove, di capire lui stesso prima di scrivere e far capire agli altri.
Sembrava infatti che mentre scriveva lui stesso stesse capendo sempre di più, non una lezione da ammannire al lettore, ma un percorso. Peppe era diffidente verso tutto ciò che non approfondiva. Lo era stato anche nei miei confronti quando la mia vicenda era apparsa sui giornali: voleva capirne di più. Fin quando iniziammo a vederci. Andai a casa sua discutere con D’Avanzo era piacevole. Anche quando non condivideva un’analisi o aveva dei dubbi su un passaggio dai lui giudicato troppo frettoloso, e chiosava con un “dai Robbè” che non lasciava scampo. Come a dire, questa cosa la devi dimostrare. D’Avanzo aveva uno sguardo da matematico sulle inchieste: i passaggi possono essere semplificati solo quando ci sono fattori semplificabili e il tutto deve essere il risultato di una somma di passaggi. Questo rigore non ti assicura di metterti al riparo da errori o imprecisioni, tutt’altro, ma ti permette di agire sempre con la lucidità  e la sicurezza che solo la ricerca della verità  può dare. Questo faceva di D’Avanzo molto di più di un cronista d’indignazione, un analista. E questa la differenza. Peppe cercava di mantenersi invisibile perché questo gli permetteva di fare meglio il suo lavoro di giornalista d’inchiesta, di muoversi più facilmente e liberamente: io dinanzi ai suoi occhi ero esattamente il contrario, perché cercavo e cerco di ottenere visibilità  per arrivare al più alto numero di persone possivile . E temevo che questa diversità  ci allontanasse, che Peppe fosse un giornalista della vecchia guardia, di quelli convinti che sia nobile avere una firma, non un volto televisivo, che sia importante scrivere libri, non venderli. Ma mi sbagliavo. Con il passare del tempo ci legammo perché Peppe era incuriosito e ammirato soprattutto dalla diversità  di metodo. Il racconto del potere ci univa, e io ricorrevo a lui quando proprio non riuscivo comprendere alcune dinamiche. Fu il primo a chiamarmi dopo il polverone partito con il mio racconto televisivo sulla ndrangheta al nord. Mi incoraggiò a mantenere il punto a non indietreggiare e anzi ad andare a fondo certo che il fastidio era giunto al governo dal troppo ascolto di quelle parole….Quando una persona scompare ti restano nelle prime ore il ricordo di dettagli a cui non avevi mai pensato.
Almeno a me così accade. Ancor prima che all’intera vita lavorativa di una persona penso a piccole cose, mi tornano in mente per la prima volta. Quando ci incontravamo per pranzo Peppe mi faceva trovare la mozzarella, che io adoro. Mentre lui invece come antipasto mangiava le fragole. Non l’avevo mai visto fare. E a fine pasto c’era sempre mentre si accendeva il sigaro il momento in cui si parlava di Napoli. Sempre. Per nessuno tranne che per i meridionali è così. Se scrivi se canti se giochi, e vieni da napoli sarai sempre il giornalista napoletano, scrittore napoletano pittore napoletano. Quel napoletano non te lo toglierai mai.
La sua bravura e il suo metodo rigoroso spesso infallibile lo portavano ad essere un giornalista temuto. Peppe generava paura, paura nelle persone che finivano nelle sue inchieste, ma anche timore riverenziale in tutti coloro che si apprestavano a scrivere sugli stessi argomenti. Peppe sapeva essere duro, durissimo. Era umorale, sanguigno. Esigente con se stesso prima che con gli altri, non si tirava indietro nel ritrattare un giudizio su una persona o una vicenda. Il suo carattere e i suoi modi lasciavano intravedere una malinconia che ci aveva visti vicini. Capitava spesso che dopo un forte impegno giornalistico, Peppe sparisse. Il giornale lo cercava, così come gli amici e i colleghi, ma lui si inabissava. Inutile cercarlo, inutile implorare risposta inutile chiamarlo. Peppe non c’era. Per i colleghi questo era un aspetto indecifrabile del suo carattere, a volte mal sopportato o persino visto come l’atteggiamento snob di chi vuole porre delle distanze. A me, invece, quest’aspetto di Peppe piaceva molto, perché lo vedevo come il suo modo di non essere inghiottito dal mondo difficile che aveva scelto. Il giornalismo, anche se hai un’anima forte e una morale rigorosa, è un territorio torbido. Quando poi si fanno inchieste, tragedie, morti e crimini diventano parte della tua quotidianità : con il tempo e l’abitudine tendono inevitabilmente a diventare solo qualcosa da mettere in prima pagina. Perdono il loro pathos, il loro valore di coscienza. Dopo un po’ ne vieni anestetizzato: una morte non ti spaventa più, un omicidio lo vedi solo come un titolo sul giornale, i rapporti diventono utili solo se convenienti a trovare notizie o ad avere contatti con un certo mondo. Peppe metteva sé al riparo da tutto questo ritirandosi dopo esserci stato in mezzo alle cose senza risparmiarsi. Come se il darsi troppo rischiasse di compromettere la sua anima. Quando chiudi una inchiesta ti resta l’amaro, il disgusto. “Questo davvero è lo schifo di mondo in cui viviamo”, gli dicevo, e Peppe sentiva nelle mie parole tutta l’eco della strisciante depressione, se non trovi una via di sfogo, ne vieni inghiottito. La depressione la malinconia è ciò a cui una persona che lavora con la sola fragile potenza delle parole si espone.
Da fuori osservarlo era davvero un’esperienza. Peppe era geloso delle persone che amava. Una gelosia che era l’unico tratto quasi fanciullesco del suo vivere (a parte il tifo maniacale per il rugby), il suo legame con il direttore Ezio Mauro a vedersi era qualcosa di unico e indefinibile, rapporto giornalista direttore amicizia fratellanza simbiosi che non rinunciava a discussioni. Perché per Peppe convincerlo o convincere era la fine di un percorso di combattimento. Peppe voleva che le persone verso cui nutriva affetto vero lo curassero e voleva che queste si concedessero alle sue cure. Anche questo credo che mancherà  soprattutto ai suoi colleghi e mancherà  a me. L’esclusività  che richiedeva, il sentirsi di continuo necessario, voluto bene, tenuto in considerazione. Tutt’altro che insicurezza ma il ribadire il valore del legame. Se quel valore non lo difendi e coltivi soprattutto quando fai questo mestiere, sempre esposto, sempre criticato, sempre nel mirino, beh dicevo se non lo difendi quel valore tutto crolla. Ero stato a casa sua diverse volte, ma ne ricordo una in particolare: il giorno in cui sentii che non ne potevo più di vivere così. Blindato eppure con i soliti commentini crudeli e sotto banco, “lo fa per soldi” “macchè rischio non c’è nessun rischio” “tutta una messa in scena”. Scappai a casa sua, lontano dagli schiamazzi salii di fretta le scale fino all’ultimo piano. Mi accolse con un bicchiere di vino in terrazza, ai nostri piedi sempre la dolcissima Noce, la sua cagnolina sempre presente.
Mi fece sfogare, annuendo o accompagnando le mie parole con un “mmm” cadenzato come a rassicurarmi che mi stava ascoltando con attenzione. E alla fine del mio lungo sfogo disse semplicemente ma con fermezza: “Robbè io la terrei la scorta, quelli te la danno resisterei, non fare cazzate”. Quando nel 2009 fu messa in dubbio la necessarietà  della scorta – affermazioni subito smentite dal capo della Polizia Antonio Manganelli – Peppe scrisse un articolo analitico, puntuale, come era nel suo stile in cui cercava le ragioni di queste dichiarazioni senza senso. Quando una persona interviene pubblicamente in tua difesa, non lo dimentichi. Mi disse anche di partire, di andare via. E il suo ultimo messaggio era di rimprovero perché non l’avevo salutato subito seguito da “ti raggiungo, contaci”. Il dispiacere che non si arresta in queste prime ore senza Peppe è aumentato dal pensiero che non è riuscito a vedere la fine del potere berlusconiano, un potere che aveva descritto e capito come pochi. Senza odio personale anzi, ma comprendendone le dinamiche che hanno minato, eroso lo scheletro e il midollo della democrazia italiana. Un potere che gli aveva reso anche la vita difficile. Il kaddish per Peppe lo reciterò il primo giorno della nuova Italia, perché quel giorno ormai vicino verrà  anche grazie a Peppe.

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