Regole, sanzioni e rimborsi all’estero l’evasione fa flop
La mattina del 16 giugno 1931, Eliot Ness, capo di un pool di agenti federali del Tesoro, entrò in una villa di Chicago e mise le manette al signor Alphonse Gabriel Capone, un newyorkese di origine italiana, contestandogli 23 capi d’accusa per evasione fiscale. Il furto all’erario non era certamente il reato più grave commesso dal capo della gang più pericolosa d’America ma fu sufficiente per condannarlo a 11 anni di carcere.
La storia del boss con decine di scheletri nell’armadio che sfugge alla cattura per omicidio e finisce dietro le sbarre per non aver pagato l’Iva è diventata proverbiale in un paese come l’Italia che probabilmente ha il record mondiale delle tasse non pagate in rapporto al Pil. Perché all’estero non è così? Perché in Francia o in Germania le tasse si pagano senza battere ciglio? Soprattutto, come fanno gli altri a individuare e punire gli evasori?
La classifica internazionale dell’evasione lascia pochi margini all’interpretazione. Va presa con la cautela necessaria perché dire quanti sono gli evasori è come chiedersi quanti sono i clandestini, ma le stime spiegano che l’Italia è al primo posto con oltre il 50 per cento dei redditi non dichiarati e dunque non tassati. A considerevole distanza il secondo posto spetta alla Romania (42,4 per cento) seguita a sua volta da Bulgaria, Estonia e Slovacchia. Nella ricerca, pubblicata nel settembre scorso da Contribuenti.it, le ultime posizioni sono occupate dall’Inghilterra (11,9 per cento di reddito non dichiarato) dal Belgio (10,3) e dalla Svezia (7,6). Quest’ultimo dato, la particolare fedeltà degli svedesi agli obblighi fiscali, sembra smentire una delle teorie più diffuse in Italia: che l’evasione sia elevata perché è elevata la tassazione. Una tesi sposata a suo tempo dallo stesso Berlusconi quando affermò che è difficile condannare chi non paga le tasse sopra una certa soglia di imposizione. In Svezia il fisco porta a casa il 56,4 per cento dei redditi dei cittadini mentre in Italia siamo al 45 per cento.
Uno dei motivi dell’alto tasso di evasione italiano sta forse nell’incertezza della pena. Nel paese che arresta Al Capone è decisamente sconsigliato aggirare il fisco: forse per via del rischio di arresto, il Tesoro Usa incassa il 94 per cento dell’evasione accertata. Ma anche altrove le cifre sono incoraggianti: nel Regno Unito si recupera il 91 per cento dell’evasione scoperta, in Francia l’84 e in Turchia il 58 per cento. In Italia il fatto di essere scoperti non significa necessariamente che si debba poi pagare. Solo il 10,4 per cento dei denari truffati al fisco rientrano davvero nelle casse dello Stato. Perché la scoperta di una frode non è la fine di una storia ma, spesso, l’inizio: invece di pagare lo Stato si pagano gli avvocati e comincia un estenuante contenzioso che spesso porta a una fase di stallo, come quelle partite a scacchi in cui il giocatore più debole si nasconde in un angolo e punta al pareggio dopo un estenuante tiramolla. Lo Stato ripaga il contribuente italiano con la stessa moneta: e così siamo in testa alla classifica per le lungaggini nei rimborsi fiscali. A differenza di quanto accade altrove, l’Italia è il paese in cui il fisco è un campo di battaglia, non il luogo del trasferimento delle risorse dai redditi individuali alla collettività . Si evade su tutto: «Gli studi di settore – osserva il presidente di Contribuenti.it, Vittorio Carlomagno – ci raccontano che in Italia due morti su tre si tumulano da soli», perché manca ogni riscontro fiscale dei pagamenti alle agenzie di pompe funebri.
Vista dall’Europa, la poco invidiabile situazione italiana ha molte spiegazioni possibili. Marco Fantini ha curato il recente studio pubblicato da Eurostat sull’evoluzione della fiscalità in Europa ai tempi della crisi. «Uno dei fattori che spiegano la situazione italiana è certamente quello della polverizzazione dei contribuenti». Una delle caratteristiche del tanto lodato sistema delle piccole imprese è il fatto che sono, di fatto, incontrollabili. Forse perché il fisco italiano considera impresa anche il singolo cittadino che si compera un camion e apre una partita Iva. Lui è un camionista ma viene trattato come un capitano d’industria. Così è molto più semplice verificare se la grande azienda paga le tasse che accertare il reddito percepito da un lavoratore autonomo nascosto nel vasto Triveneto.
Il secondo motivo che rende più semplice l’evasione italiana è quello della giungla burocratica. Fantini cita «un recente studio della Banca mondiale che prende in esame 183 paesi nel mondo e stila una classifica mettendo in cima i paesi in cui pagare le tasse è più semplice e in fondo quelli in cui è più complicato». Su 183 paesi, l’Italia galleggia al 167 esimo posto, nel cuore della zona bassa della classifica. Per completezza va sottolineato che ai primi posti non stanno paesi particolarmente virtuosi ma quelli nei quali il sistema fiscale è tanto semplice da essere inesistente: al primo posto c‘è Timor Est dove le tasse assorbono lo 0,2 per cento dei profitti. Ma l’Inghilterra è 76esima, la Danimarca 36esima e gli Usa 124esimi.
Se si considerano le percentuali di tassazione l’Italia è anche qui ai primi posti. Il nostro sembrerebbe essere uno tra i sistemi fiscali più severi ma è una severità di facciata. Come le grida manzoniane, le norme sono tanto più dure quanto più lo Stato è impotente al momento di farle rispettare. Così il divario tra quanto formalmente è tassato, il 43 per cento dei redditi (uno dei tassi più alti d’Europa) e quanto pagano davvero i pochi che sborsano (quasi il 52 per cento del reddito incassato) è un buon indicatore per misurare l’impotenza del fisco italiano. A questo difetto di fondo si aggiunge un problema strutturale: «Gli stati europei – osserva Fantini – si dividono in due gruppi: quelli che impongono un livello di tassazione relativamente basso ma pretendono che il contribuente paghi fino all’ultimo euro. E quelli che invece hanno aliquote alte e una nutrita schiera di possibili detrazioni». Inutile dire che l’Italia appartiene al secondo gruppo, forse perché mettendo aliquote alte ogni detrazione sembra quasi un favore che lo Stato concede ai cittadini. Questo però crea una miriade di possibili eccezioni e altrettante scappatoie per chi voglia anche solo eludere una parte delle tasse. Tra le innumerevoli forme di elusione c’è quella di consentire a chi è titolare anche di micro imprese di scaricare sull’azienda l’Iva degli acquisti personali. Capita così di veder finire tra le detrazioni di una società di edilizia l’Iva di una Ferrari, come se questa servisse davvero a girare tra i cantieri.
Non dovrebbe essere difficile imparare dagli altri per rendere la vita difficile agli evasori italiani. Una delle strade è quella di diminuire progressivamente il ricorso alla moneta privilegiando i pagamenti elettronici e incentivando i contribuenti a richiedere lo scontrino anche prevedendo la possibilità per i lavoratori dipendenti di scaricare l’Iva. Misure che non sarebbe difficile introdurre in tempi relativamente brevi. Seguendo la regola aurea che si impara guardando che cosa accade nel fisco dell’altro mondo, quello oltre le Alpi: tanto più le tasse sono chiare e uguali per tutti, tanto più sarà difficile per chi vuol evadere nascondersi nelle pieghe della burocrazia.
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