Quelle frequenze tv che il monopolista vuole gratis
Dopo uno scontro (passato inosservato), l’ Autorità per le garanzie nelle comunicazioni due anni fa varò a maggioranza una delibera decisamente subalterna agli interessi del monopolio mediatico di Mediaset. Venne scelta l’ innocua procedura del beauty contest, vale a dire la stessa che usa il mondo finanziario per l’ immissione dei titoli sul mercato, affidandola alle agenzie più affermate. Nel broadcasting ciò significa Rai, Mediaset….a seguire La7, a fatica Sky. E pensare che la Commissione europea aveva a suo tempo avviato la procedura di infrazione contro l’ Italia proprio per i meccanismi di transizione dall’ analogico al digitale, fotocopia della concentrazione nei media degli ultimi trent’ anni italiani. Per non dire della scelta di sancire il rapporto “uno a uno” tra una vecchia rete analogica e un “mux” digitale, che di programmi ne contiene come minimo quattro. Insomma, un bis ex-post della legge Mammì del ’90, quella che diede avvio alla berlusconizzazione dell’ etere, grazie al regalo di tre canali nazionali.
Quello digitale (sostantivo e non aggettivo di televisione) poteva essere il territorio di un vero cambiamento: di stili, di contenuti, di linguaggi. La post-televisione. A causa della profondità del conflitto di interessi proprio il digitale da noi sta diventando per converso l’ occasione sprecata, l’ epifania della televisione omologata e sotto padrone. Lo dimostra la decisione della stessa Agcom di scegliere al contrario la più giusta via dell’ asta competitiva per la parte della “transizione” che riguarda le telecomunicazioni (dividendo esterno). E la legge di stabilità del 2010 fissò in almeno 2,4 miliardi di euro le entrate potenziali della gara, già lievitate a 3,1 con i rialzi.
Torniamo all’ emendamento, che vede il consenso anche dell’ ‘ Italia del valori e del Terzo polo, nonché di magna pars della società dell’ informazione. Si propone semplicemente di adottare il metodo dell’ asta anche per la televisione nazionale, il cosiddetto dividendo interno. Se ne ricaverebbe non meno di un miliardo di euro, o forse anche due, sempre con i rialzi. Non solo. Si potrebbe riaprire la questione delle emittenti locali, corteggiate (con un certo successo) dalla destra fino a quando molte di loro si sono prestate a fare la periferia reazionaria della cittadella imperiale, per poi essere prese a calcioni quando il loro ruolo è stato ritenuto esaurito. Del resto, l’ attuale vergognosa legge elettorale, ha abrogato il peso del “locale”, e sono stati requisiti, in modo autoritario, nove canali per regione. Il che significa la morte di numerosissime, stazioni. L’asta riacquisirebbe al bene pubblico, per essere riassegnato, il lotto di frequenze eccedenti delle televisioni nazionali. Vale a dire i “doppioni”, figli dell’ era allegra del far west. Le frequenze sono un bene comune, il cui affidamento al privato richiede una gara corretta e un’adeguata riserva per l’emittenza locale e quella non profit. Un emendamento non fa primavera, certo. Ma introduce un particolare che può diventare generale.
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