Quel debito che pesa nella tasca di Pechino

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 PECHINO.Con 1.6 trilioni di dollari in buoni del tesoro Usa in cassaforte, la Cina guarda con preoccupazione alle manovre in corso a Washington. Reazioni ufficiali da parte di Pechino all’accordo raggiunto al Congresso fino a ieri sera non se n’erano registrate, ma tutti gli analisti concordano che per la Repubblica popolare, primo detentore di treasury bond, il problema di diversificare l’investimento delle sue riserve in valuta estera si pone in maniera pressante a causa dell’indebolimento del dollaro, che potrebbe continuare se le agenzie di rating dovessero decidere – come minacciato nelle scorse settimane da Moody’s e Standard & Poor’s – di declassare la valutazione delle obbligazioni emesse dalla prima potenza del pianeta. E allora che fare? L’unica ipotesi che gli esperti scartano è che Pechino ritiri investimenti consistenti in buoni del tesoro Usa (del resto dal 2003 a oggi sono progressivamente aumentati, passando da 255 a 1.159 miliardi di dollari): equivarrebbe a un suicidio finanziario, perché produrrebbe un brusco deprezzamento degli altri bond Usa posseduti.

Ieri le parole del presidente russo Putin – «Gli Stati Uniti sono un parassita della finanza globale» – hanno campeggiato per un po’ come titolo d’apertura nella versione online del Quotidiano del popolo, l’organo ufficiale del Partito comunista cinese. Poi sono state rimosse dalla pagina principale. Col passare delle ore sono prevalsi toni concilianti: i destini dei due giganti dell’economia mondiale sono ormai intimamente legati. Eppure cenni d’irritazione per l’incapacità  americana di elaborare misure incisive per scongiurare l’incubo della bancarotta si colgono. Per il Global Times l’accordo Usa «non sembra una mossa intelligente», perché «utilizzando nuovo debito per ripagare quello vecchio gli Stati Uniti stanno sprofondando ulteriormente nelle sabbie mobili». Secondo il giornale, che non è il megafono del Pcc ma è pur sempre legato al partito, «gli Usa sono famosi per promuovere leggi e regolamenti negli altri paesi, ma ora gli altri Stati capiscono che Washington può calpestare le proprie norme».
Al di là  delle ripercussioni di medio-lungo periodo, il problema immediato a Pechino si chiama inflazione (importata), che – qualora il dollaro dovesse ulteriormente indebolirsi – potrebbe aggravare il flagello contro il quale le autorità  stanno combattendo da mesi. L’aumento dei prezzi nel luglio 2011 si prevede superiore a quello del mese scorso, quando aveva toccato il 6,4%, record degli ultimi tre anni. Lu Zhengwei, capo economista della Industrial Bank Co Ltd, ha spiegato al China Daily che una delle conseguenze più gravi per Pechino potrebbe derivare da un possibile terzo pacchetto di quantitative easing, giudicato una scelta obbligata se l’economia a stelle e strisce non dovesse fare progressi consistenti nel secondo semestre di quest’anno. «Se la disoccupazione continuerà  ad aumentare – prevede Lu – ciò danneggerà  la fiducia degli investitori e li obbligherà  a ritirare i loro treasury bond, non lasciando al governo americano altra scelta che quella di stampare altra moneta, deprezzando la valuta». «Le riserve estere, enormi ma in progressivo deprezzamento, costituiscono una sofferenza per il popolo cinese – conclude il Global Times – ma esistono poche possibilità  di abolirle. Questa è forse la lezione che la Cina deve apprendere dal proprio sviluppo. Il debito statunitense detenuto dalla Cina è troppo piccolo (quello complessivo ammonta a 16,6 trilioni di dollari, ndr) per rappresentare uno strumento di pressione determinante. Abbiamo bisogno di più pazienza e saggezza per acquisire la capacità  di confrontarci con gli Usa».

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Cina / FOXCONN ABBATTE IL COSTO DEL LAVORO
La fabbrica dei replicanti, robot invece di operai

 PECHINO

Foxconn, la «fabbrica dei suicidi» dove dall’anno scorso si sono tolti la vita uno dopo l’altro 17 operai cinesi vittime di turni di lavoro sfiancanti, bassi salari e minacce, sembrerebbe aver scelto una soluzione radicale per arginare i sempre più ingombranti lavoratori: sostituirli con i robot.
La compagnia taiwanese (vero nome (Hon Hai Precision Industry), che in Cina assembla iPad e iPod per la Apple e che attualmente possiede circa 10 mila robot che eseguono operazioni elementari, ha fatto sapere che l’anno prossimo si doterà  di 300 mila macchinari intelligenti, che entro il 2014 raggiungeranno quota 1 milione. L’annuncio è stato dato dal miliardario di Taiwan Terry Gou, fondatore e presidente della compagnia, e riportato dai media locali.
Con i suoi 920.000 dipendenti, Foxconn è il principale datore di lavoro del settore privato in Cina e ha commesse da altri giganti del settore hi-tech come Apple, Nintendo, Sony, Dell, Acer, Nokia, Microsoft. Con un comunicato Gou ha spiegato che il passo avanti nella direzione dell’automazione mira a sottrarre «i lavoratori dalle mansioni maggiormente ripetitive (ad esempio saldatura e verniciatura, ndr) per portarli in segmenti della manifattura con valore aggiunto, come ricerca, sviluppo, innovazione e altre aree ugualmente importanti per il successo delle nostre operazioni». Gou sostanzialmente presenta la decisione come una mossa che andrà  incontro alle esigenze degli operai.
In realtà  quello del manager cinese sembra piuttosto un tentativo di ridurre il costo del lavoro e farsi un po’ di pubblicità  dopo lo sdegno internazionale causato dalla scoperta delle condizioni di lavoro nello stabilimento della metropoli-fabbrica di Shenzhen. Da un lato infatti l’esperimento potrebbe fungere da apripista per una realtà  come quella delle aziende cinesi, che hanno margini di profitto sempre più ristretti, anche a causa degli aumenti salariali ottenuti dagli operai con una serie di lotte senza precedenti – tra cui quelle agli stabilimenti Honda e Toyota nel sud del Paese – che li vede mobilitati da oltre un anno. Dall’altro però, avverte la rivista New Scientist, gli annunci di Gou potrebbero rivelarsi trionfalistici, per due motivi. I «robot» sarebbero in realtà  poco più che braccia meccaniche. E, inoltre, come rilevato dalle statistiche della Federazione internazionale di robotica (Ifr), nel 2009 erano in funzione – in tutto il mondo – 1.020.000 esemplari e, secondo le stime dell’associazione, entro il 2013 ne saranno operativi 1.120.000. Dalla fine degli anni Sessanta, quando sono stati inventati, ne sono stati costruiti in tutto 2.230.000.


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