Quei fantasmi dell’11 Settembre che perseguitano i sopravvissuti

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NEW YORK – Secondo le cifre snocciolate da tre programmi di ricerca sanitaria compilati dalle autorità  di New York, almeno diecimila vigili del fuoco, agenti di polizia e comuni cittadini che vissero la traumatica esperienza dell’attentato terroristico al World Trade Center soffrono di qualche disturbo da stress post-traumatico e molti di loro devono ancora riprendersi da una sorta di lutto di massa.
Gli psicologi parlano di persone che non riescono a dormire, rivedono nella loro mente o negli incubi le immagini del disastro. Hanno problemi di concentrazione. Sono nervosi e reagiscono in modo spropositato agli allarmi o a suoni molto forti. Si sentono indifesi, disperati, colpevoli ed estranei alle persone loro vicine. Evitano accuratamente tutto ciò che ricorda loro quel terribile giorno.
Nei prossimi anni per la loro cura si spenderanno milioni di dollari, grazie alla legge nota come “James Zadroga act”, approvata a dicembre per mettere a disposizione 4,3 miliardi di dollari per indennizzare e curare tutti i newyorchesi colpiti da qualche malattia riconducibile all’11 settembre. Tra di loro, chi partecipò ai soccorsi, ma anche residenti, pendolari, dipendenti degli uffici rimasti intrappolati dalla nuvola di polvere e persone che videro, semplicemente, quanto accadde.
Il dipartimento sanitario municipale calcola che “probabilmente” 61mila dei 409mila civili presenti nell’area del disastro abbiano sofferto di qualche sintomo da stress post traumatico nei primi sei anni intercorsi dall’11 settembre 2001. I programmi sanitari varati dopo l’11 settembre hanno dato vita a un massiccio sistema per selezionare i pazienti in funzione delle loro necessità  fisiche o psicologiche. Anche gli ospedali pubblici hanno aperto le porte ai newyorchesi tramite manifesti affissi nella metropolitana sui quali si leggeva: «Vivevate lì? Lavoravate lì? Meritate di essere curati». Nessuno è in grado di dichiarare con precisione quante persone siano state esposte agli attentati, e quante potrebbero ancora ammalarsi a livello fisico o psicologico e quanti fondi serviranno per curarle.
Se il governo appurerà  un rapporto diretto tra la polvere respirata l’11 settembre e i casi di tumore, si teme che i fondi stanziati possano non essere sufficienti, per quanto il fondo Zadroga dovrà  essere una fonte secondaria di risarcimento, destinato a coprire ciò che le assicurazioni e i risarcimenti dei lavoratori non avranno già  coperto. Il dottor Howard, amministratore sanitario federale dell’11 settembre, ha detto che il governo «curerà  i cittadini che si presenteranno, nella misura del possibile».
I pazienti troveranno reparti attrezzati di stanze nelle quali saranno divisi in tre categorie al triage: verde (senza necessità  di ulteriori valutazioni), gialla (potenzialmente sintomatici) e rossa (con sintomi così gravi da poter diventare soggetti con tendenze suicide). Già  a casa i newyorchesi riempiranno un questionario di circa 11 pagine che chiede di indicare quanto spesso si sentono «tranquilli e pacifici», di parlare di recenti esperienze di vita come la perdita del posto di lavoro o la rottura di un legame affettivo. In una sezione che si intitola “Reminders of 9/11”, sarà  chiesto loro se hanno pensieri ricorrenti sull’attentato e se si sentono emotivamente distaccati da quanti sono loro vicini per vincoli di amicizia o parentela. In seguito, parlando direttamente con un operatore sanitario, si sentiranno chiedere se «pensano spesso che sarebbe stato meglio morire», se si «sentono immeritevoli», se «provano un senso di colpa pur sapendo di non meritarsi affatto di sentirsi così».
Una volta appurato che questi pazienti soffrono di disturbi da stress post-traumatico, in genere ricevono sedute di psicoterapia e pillole, nello specifico antidepressivi e talvolta anche sonniferi. Molti di loro sono incoraggiati a tener vivi i loro ricordi o a trascriverli fino a quando non perdono di intensità , per la “terapia dell’esposizione”.
La dottoressa Dessau, un’atletica signora bionda giovanile, dagli occhi verdi truccati di blu, vive ancora nello stesso arioso loft sulla Greenwich, pieno di souvenir raccolti in 35 anni di viaggi fatti con il marito, il signor Wheeler. La signora oggi ha 64 anni e ascoltando le registrazioni delle sue sedute ha superato per un po’ le proprie paure. Nel 2009, però, è stata travolta nuovamente dalla tragedia quando suo marito Bob Wheeler è morto dopo soli quattro mesi dalla diagnosi di tumore ai polmoni. Il marito, un avvocato, non aveva mai fumato e così la dottoressa Dessau, pneumologa, sospetta che il tumore sia riconducibile all’esposizione alla polvere dei grattacieli crollati. La sua morte così veloce le ha fatto rivivere tragicamente la sensazione di totale impotenza che aveva provato osservando la gente buttarsi giù dalle Torri. La dottoressa Dessau considera l’11 settembre e la morte del marito come un tutt’uno, strettamente correlato, insieme alla fuga dei suoi genitori dalla Germania nazista, al suicidio di un parente stretto e al tempo trascorso da studentessa in Israele a preparare bende per i feriti della guerra arabo-israeliana del 1967. «Tutto ciò aggrava il mio pessimismo. È la prova del male che esiste negli esseri umani» ha detto.
La sensazione che l’11 settembre sia stato una sorta di catalizzatore di ogni male è assai comune. A giugno Stanley Mieses, 58 anni, scrittore e redattore freelance, durante una valutazione clinica ha manifestato al massimo tutti i sintomi da stress post traumatico. Mieses viveva a sei-sette isolati di distanza dal Trade Center e ha visto crollare le Torri. La polizia lo aveva fatto evacuare, ma era tornato a casa sua ogni pochi giorni a dar da mangiare ai suoi gatti. Ricordando le ceneri sparse dal vento quel giorno, dice: «I morti sono entrati nel mio appartamento dal davanzale della finestra, perché il padrone di casa è stato troppo spilorcio per ripulirlo».
Holland ha 48 anni ed era un coordinatore paramedico del North Shore-Long Island Jewish Health System quando rispose alle chiamate d’emergenza dopo il crollo della seconda torre. Nei suoi sogni risente ancora gli allarmi – attaccati alle maschere di ogni vigile del fuoco – che indicavano quando smettevano di muoversi. «C’erano centinaia di allarmi che si spegnevano» dice afferrando un fazzoletto per asciugarsi le lacrime che ancora gli rigano il volto mentre ricorda quel tragico giorno seduto in cucina. Si è ripreso a sufficienza da poter sperare di tornare al lavoro, ma non più in prima linea. «Non so se riuscirò ad andare al monumento commemorativo. Preferisco lasciarmi tutto alle spalle».
©The New York Times La Repubblica
Traduzione di Anna Bissanti


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