Quei cronisti senza nome nel mirino per una notizia

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Sono invisibili, facce che non si vedono nei talk show. Sono soli, sperduti nella provincia italiana più lontana. Sono decisi, appassionati, sfrontati. E danno notizie che fanno male. Sul mafioso della porta accanto, sul sindaco che magari è amico del cugino o dello zio, sul compagno di scuola che è diventato trafficante di coca. Scrivono. E più scrivono e più sono in pericolo. Raccontano. E più raccontano e più sono bersaglio. Cronisti di paese, corrispondenti dal fronte. Li vogliono con la bocca chiusa. Muto tu e muto io. Silenzio stampa.
Chi sono? Cosa rivelano e cosa denunciano quei giornalisti senza nome e senza firma che combattono una guerra oscura negli avamposti criminali d’Italia? Quanti sono e a chi fanno paura gli sconosciuti reporter che ogni giorno setacciano i loro territori sputtanando saccheggi, accordi loschi, commerci? Diffondono informazione scomoda. E in cambio ricevono minacce, subiscono attentati, sono destinatari di anonimi, pallottole calibro 12, «consigli», avvertimenti dedicati a figli e a mogli. È l’inferno del giornalista che vede e che sente e che parla. Quello che non si volta dall’altra parte.
Dall’inizio di questo 2011 sono 143 i cronisti che si sono svegliati all’improvviso di notte per il botto della loro auto saltata in aria, o che hanno trovato una lettera con una croce sopra, o che sono stati pedinati e percossi, che hanno aperto una scatola con dentro la testa di un capretto o di un cane. Avvisati.
Accanto ai pochi noti e famosi come Roberto Saviano, Lirio Abbate e Rosaria Capacchione, ci sono gli altri, gli ignoti, quelli che sopravvivono nel terrore nella Piana di Gioia Tauro, quelli che fanno i conti con i signorotti di Casal di Principe o i guappi napoletani, quelli «guardati» in Sicilia da Cosa Nostra e quegli altri vessati dai malacarne di Viterbo o di Fondi. Non c’è zona franca per i cronisti con la schiena dritta. Se a Partinico preferiscono il fuoco, a Vicenza oscurano i siti web. Se a Sabaudia s’infilano nelle loro abitazioni per impaurirli, in Lombardia fanno un uso intimidatorio di querele e cause civili. Ogni volta che un articolo non piace mandano avanti gli avvocati. Piccoli giornali e fogli locali sono sommersi da citazioni. Un modo come un altro per metterli a tacere. Ogni potente ha i suoi metodi. Dopo la «retinata» – è il tirare le redini come si fa con i cavalli – a volte si ottiene l’effetto: il silenzio. È il silenzio quello che conta.
Il giornalista deve stare al suo posto. Una parola di troppo può provocare risentimenti, affossare affari. E così latitanti come Michele Zagaria e Antonio Iovine chiamano in diretta Carlo Pascarella del Giornale di Caserta che sollevava dubbi su certi equilibri criminali: «Noi ci siamo stufati, noi siamo delle famiglie che ci stimiamo da tanti anni e da domani mattina non scrivere più certe cose… attento, non è che ti stiamo minacciando».
Dare notizie è peggio. Ne sanno qualcosa i ventuno cronisti calabresi che negli ultimi nove mesi sono stati colpiti. Troppo informati. Sono quasi tutti giovanissimi, qualcuno non ha neanche trent’anni. Precari, pagati a pezzo, senza assistenza legale si aggirano per le vie di Reggio o fra gli ulivi di Rosarno con addosso il fiato dei capobastone. È il drappello più numeroso dei giornalisti a rischio in Italia. Ogni loro articolo è studiato, ogni movimento controllato. In una terra dove la mafia è stata a lungo protetta e coccolata, dove i boss della ‘Ndrangheta non erano abituati a finire in prima pagina, all’improvviso sono arrivati loro. Si chiamano Michele Albanese e Francesco Mobilio, Giuseppe Baldessarro e Lucio Musolino, Michele Inserra, Nino Monteleone, Pietro Comito. E ce ne sono tanti, tanti altri ancora.
Le loro storie sono tutte diverse e tutte uguali. Cronache asciutte su omicidi e faide, resoconti impeccabili su operazioni poliziesche e giudiziarie, l’approfondimento dei fatti, le testimonianze. Un giornalismo a tutto campo. Troppo giornalismo. E troppo ravvicinato a quelli che lì sono considerati i padroni. Finito il silenzio è cominciato il terrorismo mafioso. Chi si trova un passo avanti entra nel mirino. Chi ha una notizia in più diventa obiettivo militare e «politico» della ‘Ndrangheta che vuole sempre comandare. Anche sui giornalisti. La loro colpa è quella di far conoscere la mafia calabrese anche fuori dal suo regno.
A Michele Albanese, corrispondente dalla Piana per Il Quotidiano della Calabria, di minacce ne sono arrivate esplicite e in codice, firmate e anonime. L’ultima da Rosarno, un paese che in proporzione al numero dei suoi abitanti – appena quindicimila – ha cinque volte i mafiosi di Palermo. Da quando ha raccontato la «caccia al nero» nelle campagne dove raccoglievano arance, Michele non ha più avuto pace. Esperto di cose mafiose, descrive gli avvenimenti e li interpreta con il suo sapere. Pericoloso. Spiega bene e spiega troppo. Ha casa a Polistena, che è un piccolo comune sfiorato dalla strada che collega il mar Tirreno allo Jonio. Lo trattano come se fosse un appestato: «Loro sanno chi sei, ti conoscono fisicamente. Li incontri quando escono dal carcere, li incontri al bar, dal benzinaio, al supermercato quando sei con la moglie a fare la spesa, in pizzeria quando le figlie festeggiano il compleanno. Ti fanno capire che sei un nemico: che sei un ‘mpamu, un infame».
I giornalisti delle grandi testate che raccontano la Calabria scendono due giorni a seguire un fatto e poi se ne vanno, Michele resta lì. Solo nella piazza di Polistena, a guardarsi intorno se qualcuno gli scivola alle spalle.
A Lucio Musolino hanno bruciato la macchina, a Pietro Comito di Calabria Ora hanno spedito la solita lettera («Sei una cosa fitusa») e poi è partita la telefonata: «Smettila con i Soriano che ti gettiamo nel cimitero». I Soriano di Filandari, quelli che facevano politica dagli arresti domiciliari, che comandavano dalla casa dove non potevano uscire. A Giuseppe Baldessarro, anche lui cronista giudiziario per il Quotidiano e corrispondente dalla Calabria per Repubblica, sono state consegnate via posta un po’ di pallottole. Dice Giuseppe: «Il loro obiettivo è quello di farci smettere di scrivere».
Fino a una decina di anni fa in Calabria si vendeva un solo giornale locale e c’era una sola televisione regionale. Da quando sono nate altre testate e le notizie circolano sui blog, è scoppiata una rivoluzione. È il giornalismo che si è ribellato alla ‘Ndrangheta. Le prime vittime sono stati questi ventuno colleghi. Silenzio stampa.
Andare oltre. Il confine è impercettibile. Basta trovarsi con un piede dall’altra parte e diventi spione, uno che non si fa gli affari suoi. Bastano trenta righe in cronaca e ti stampano addosso il marchio di sbirro. C’è chi se ne frega e c’è chi evita. La normalità  diventa coraggio. Tutti hanno paura, qualcuno va avanti. Isolato dentro e fuori il suo ambiente, compatito e a volte anche attaccato dai colleghi – («Chi te lo fa fare», «Te la sei cercata», «Così vai a sbattere»), scansato come un cane rognoso. Una notizia in più porta sempre guai. Meglio non scrivere.
Perché il giornalismo fa paura? C’è una strategia contro chi non vuole piegarsi alle cupole criminali e alle cupole politiche? «Ci sono colleghi che si ostinano a fare il loro lavoro e questo sta diventando molto rischioso», risponde Alberto Spampinato, un bravissimo giornalista siciliano – segue per l’agenzia Ansa i presidenti della Repubblica – che nel 2007 ha avuto l’idea di far nascere un osservatorio, Ossigeno per l’informazione, sui cronisti sotto minaccia. Nel 1972 Alberto ha perso un fratello. Si chiamava Giovanni, era corrispondente dell’Ora da Ragusa: lo assassinarono mafia ed eversione nera. Dopo avere scritto un libro su Giovanni, Alberto Spampinato si è buttato in quest’avventura: «Ho capito che il meccanismo che aveva ucciso mio fratello è tuttora attivo e continua a macinare vite di giornalisti». L’osservatorio ha anche un contatore che registra i nuovi casi di intimidazione.
Dicono quello che altri non dicono. Pino Maniaci, dagli schermi di TeleJato a Partinico. Enzo Palmesano, che svela le contiguità  fra i camorristi Ligato e Lubrano e uomini politici di Pignataro Maggiore. Le testimonianze di Tina Palomba e Marilena Natale nelle terre di Gomorra. Gianni Lannes, freelance pugliese e il siciliano Nino Amadore con le sue cronache sul pizzo fra le due sponde dello Stretto.
«Sei morto», è il messaggio che ha trovato sulla scrivania Daniele Camilli, collaboratore de L’Opinione di Viterbo. L’hanno seguito di notte e hanno fatto irruzione nella casa di Vetralla, il suo paese. Lo perseguitano. Nei cunicoli di Viterbo Daniele aveva scoperto una trentina di scavi clandestini, traffico di reperti archeologici. È sopraffatto: «Me ne vado: a Vetralla non posso più vivere».
Più di tutti gli altri però, assediati sono sempre i giornalisti calabresi. Angela Corica ha solo venticinque anni, cinque colpi di pistola contro la sua auto. Nino Monteleone ha ventisette anni e anche la sua macchina è saltata in aria. Sul blog raccontava dei Serraino e della loro latitanza protetta dai picciotti di altre famiglie. Una notizia nella notizia che anche gli inquirenti non conoscevano: significava che tutti i clan di quella zona rispondevano a un solo comando. Averlo fatto sapere gli è costato molto. Quello di Nino è stato l’unico attentato scoperto contro i giornalisti. I due mafiosi che lo seguivano avevano una cimice che li ascoltava. Si sentivano le loro voci mentre stavano per colpire.
I mafiosi leggono. Fanno confronti. Giudicano i giornalisti. E poi reagiscono. A Michele Inserra hanno mandato un “regalo”: la cartuccia di un fucile da caccia. Allora Michele stava a Siderno, una delle capitali della Locride. Racconta: «Una volta la ‘Ndrangheta era come un fantasma, tutti ne sentivano parlare ma poi dicevano che non l’avevano mai vista. Quella parola non bisognava scriverla. Ora sta cambiando, lentamente ma sta cambiando».
Le cattive abitudini del vecchio giornalismo calabrese. Che poi qui erano anche le cattive abitudini dei poliziotti, dei magistrati, degli avvocati, degli imprenditori. Muto tu e muto io. Chi prova a spezzare il muro di omertà  entra nella lista. C’è finito anche Francesco Mobilio. Lui è un cronista di “bianca”, nei suoi articoli non cita mai i nomi dei mafiosi. Apparentemente si occupa d’altro. Apparentemente. Ogni mattina fa il giro delle stanze del Comune di Vibo Valentia, riferisce di consigli comunali, pubblica inchieste sui problemi della sua città . Come quella sull’edificio che a Vibo chiamano «il palazzo della vergogna», una costruzione abbandonata da quindici anni nel centro storico. Un sindaco aveva avuto la bella idea di abbattere l’edificio e ricavarci una piazza. Francesco ha fatto il suo articolo. Minacce di morte e pallottole. Il palazzo della vergogna è sempre nel cuore di Vibo Valentia. E Francesco continua a fare il suo mestiere. Come gli altri. Come Michele, Giuseppe e Nino, Angela, Lucio, come Filippo, l’altro Michele, Agostino, Leonardo, i due Antonio, Fabio, Lino, Alessandro. Tutti con il vizio di scrivere. Infami.


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