“Seconda frenata inevitabile ma questa volta andrà peggio i governi non hanno più armi”
Gli investitori si chiedono preoccupati se la Grande Recessione sta per tornare, e se un’America sempre più insolvente e una periferia di Eurolandia sempre più debole saranno in grado di reggere l’impatto. Stiamo vivendo la famosa recessione a W (prima la recessione, poi la ripresa e poi una seconda recessione)? L’euro è condannato? E la Cina riuscirà a tenersi fuori dalla mischia? Foreign Policy ha chiesto a due economisti fra i più bravi a prevedere il futuro, Nouriel Roubini e Ian Bremmer, la loro opinione su quello che ci aspetta nei mesi e negli anni a venire.
Ormai è evidente, se già non lo era, che le prospettive economiche non sono incoraggianti. Ma quanto sono negativi i fattori sistemici di mercato, e qual è il futuro a breve e medio termine dell’economia globale?
Roubini: «Tutto sembra far pensare che l’economia abbia già cominciato a rallentare, e ora, con una correzione di mercato del 10%, l’effetto ricchezza negativo e l’allargamento degli spread sul credito possono peggiorare ancora di più questo peggioramento della fiducia delle imprese, dei consumatori e degli investitori. E questo per quanto riguarda gli Stati Uniti. Nella periferia di Eurolandia, cinque Paesi – Grecia, Irlanda, Portogallo, Italia e Spagna – sono già in recessione. Tre hanno già perso la possibilità di rivolgersi ai mercati del credito, e a questo punto le probabilità che anche Italia e Spagna facciano la stessa fine sono molto alte. E l’Italia e la Spagna sono too big to fail, troppo grandi per fallire e troppo grandi per essere salvate. Nel Regno Unito l’attività economica è in calma piatta da tre trimestri. Il Giappone ha già avuto il double-dip, cioè la seconda recessione, e si riprenderà per qualche trimestre solo grazie alla ricostruzione post-Fukushima.
E ora quegli indicatori che di solito consentono di prevedere l’andamento dell’economia, come le assicurazioni private sui mutui a livello globale, segnalano un forte rallentamento della crescita di quei paesi che stavano crescendo molto rapidamente: la Cina, l’India, i mercati emergenti e quei Paesi come l’Australia che stavano tornando a crescere perché hanno un’economia orientata sulle risorse naturali. Le prospettive personalmente mi sembrano molto scoraggianti.
Credo che la differenza più importante rispetto al passato sia che stiamo rimanendo a corto di munizioni. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la zona euro stanno stringendo i cordoni della borsa. Ci sarà un drenaggio fiscale sull’idea di sostenere le banche che stanno rimanendo a corto di opzioni, perché ora i Governi sono in difficoltà .
Un altro problema è che gli Stati non possono salvare le loro banche, ma i problemi di debito pubblico si stanno trasformando in problemi del sistema bancario, per via dell’esposizione delle banche sui titoli di Stato. Come ne usciamo? Stiamo esaurendo le munizioni. Le autorità non hanno più cartucce monetarie, non hanno più cartucce di bilancio, non sono più nemmeno in grado di sorreggere il loro sistema finanziario. Per questo la situazione fa più paura di uno, due o tre anni fa, quando tutte queste cartucce ce le avevamo. Ora stiamo rimanendo senza».
Ian, in tutto questo c’è anche un problema politico? Questa nuova “era di austerità ” sta mettendo i Governi eccessivamente sotto pressione? Vedi nero come Nouriel per il futuro?
Bremmer: «L’unico punto su cui probabilmente sono più ottimista è che a mio parere non stiamo per entrare in una seconda recessione, se la definizione che adottiamo è quella di un paio di trimestri di crescita negativa, ma io penso che per tante, tantissime persone la percezione sarà quella di una recessione. Ritengo anch’io, come Nouriel, che non ci siano margini di intervento politici per raddrizzare la situazione.
E poi c’è il problema di una convergenza di crisi economiche. Se il problema fossero solo gli Stati Uniti mi sentirei fiducioso. Ma entrare nella stagione elettorale in un momento in cui le economie europee più importanti vedono allargarsi gli spread e crescere in tempi rapidissimi la sfiducia degli investitori, significa che ci sono serie possibilità di contagio per gli Stati Uniti. È questo che ci deve preoccupare. Da un punto di vista strutturale, penso che oggi il mondo per molti versi sia messo molto peggio di due anni fa».
Da dove bisognerebbe partire?
Roubini: «Per cominciare, il massimo che ci possiamo aspettare è una crescita anemica, sotto al trend, una ripresa a U: questo perché siamo alle prese con una recessione che è stata provocata da una crisi finanziaria che a sua volta è stata provocata da un eccesso di debito e di leva finanziaria, prima nel settore privato e ora nel settore pubblico. E i miei studi, sull’America e su altri Paesi, indicano che ogni volta che c’è una recessione “patrimoniale”, il meglio che si può sperare è di avere una crescita fiacca per molti anni, fintanto che dura il processo di riduzione della leva finanziaria. Il settore privato e quello pubblico devono spendere meno per risparmiare di più, o destabilizzare per ridurre debito e leva finanziaria. E per fare questo ci vogliono molti anni.
Il meglio che possiamo fare è evitare una recessione a W, ma ora abbiamo molti tail risks (i rischi estremi) in più: l’aumento dei prezzi delle materie prime, le politiche sul prezzo del petrolio in Medio Oriente, il terremoto in Giappone che ha rallentato la crescita in tutto il mondo, i nuovi timori per la tenuta dei Paesi della periferia dell’euro, e ora i timori sull’insostenibilità del deficit di bilancio americano.
Ci sono shock aggiuntivi persistenti. Un giorno i problemi vengono dalla Grecia, il giorno dopo dai timori per la situazione americana, il giorno dopo dalle preoccupazioni che Italia e Spagna non riescano più a finanziare il loro debito sul mercato, il giorno dopo ancora da Portogallo e Irlanda, e dalla Gran Bretagna o dal Giappone. I problemi di debito, privato e pubblico continueranno a dare origine a shock sistemici, avversione al rischio, timori dei mercati. Rischiamo di tornare al circolo vizioso di prezzi in calo, spread in crescita e attività economica più debole che abbiamo vissuto nel 2007-2009».
Ian, anche secondo te l’economia sta tornando ai brutti tempi andati?
Bremmer: «Quello che mi preoccupa è che il contesto politico globale oggi è molto meno in grado di reagire agli shock rispetto al 2008, quando gli Stati Uniti e la Lehman Brothers erano in crisi. La gravità dello shock a mio parere non è neanche lontanamente comparabile. Sono d’accordo con Nouriel quando dice, con grande efficacia, che non ci sono rimaste molte cartucce da sparare. Uno, o più di uno, dei Paesi avanzati che stanno facendo i conti con seri problemi strutturali devono tirare fuori una soluzione credibile per convincere i mercati che sul lungo termine riusciremo a vedere un po’ di crescita sostenibile. Il Governo americano non sembra minimamente in grado di farlo, e nemmeno i Paesi della periferia di Eurolandia. Solo i tedeschi possono riuscirci, ma non sono loro quelli che stanno provocando la crisi in questo momento».
Ma in tutto ciò dove sono i saggi dell’economia? L’ultima volta che abbiamo affrontato una crisi di questo genere c’erano Larry Summers, Ben Bernanke e Tim Geithner. Ma oggi chi c’è?
Roubini: «Certo, non mancano le persone con grandi capacità di leadership – ma a mio parere il problema fondamentale non riguarda gli individui. Il fatto è che i Paesi economicamente più avanzati hanno governi deboli. Negli Stati Uniti il governo è diviso in due schieramenti: il primo impone più tasse, l’altro taglia le spese. Negli stati periferici dell’Eurozona i governi minoritari del Portogallo e della Spagna potrebbero finire per perdere l’accesso ai mercati. In Italia c’è un buffone come Silvio Berlusconi. Nel Regno Unito la coesione è fragile e rischia di andare incontro al disfacimento. In Giappone si rischia di avere quanto prima il sesto premier in soli cinque anni – in termini di instabilità politica, peggio dell’Italia degli anni 1960-70! Persino in Germania, nonostante il robusto livello di crescita, Angela Merkel non è particolarmente popolare».
Qual è il ruolo della Cina in questo contesto? Se, come avete detto, la sua crescita è probabilmente destinata a rallentare, sia pure di poco, pensate che una delle cause fondamentali sia da ricercare negli squilibri valutari?
Bremmer: «Io penso che i cinesi abbiano compreso meglio di chiunque altro come la brevità dei cicli elettorali impedisca ai Paesi occidentali di decidere le mosse politiche necessarie per mettere a punto la traiettoria di una crescita economica sostenibile a lungo termine. Di conseguenza, la Cina oggi non crede alla sostenibilità a lungo termine del dollaro come valuta di riserva mondiale. Negli anni 2008- 2009 ci si preoccupava dell’andamento dei consumi negli Usa, che dovevano consentire alla Cina una transizione più controllata verso il suo riequilibrio interno; ma oggi la prospettiva è cambiata, e si prevede la necessità di un processo molto più rapido in questo senso.
Ma a mio parere la questione è un’altra: in Cina le basi del processo decisionale, che in passato erano fondamentalmente quelle di un concetto win-win- un gioco in cui tutti sono vincenti, grazie all’interconnessione e a una struttura economica di assicurazioni reciproche tra Usa e Cina – si stanno rapidamente erodendo. E vorrei dire un’ultima cosa: nessuno è più interessato dei cinesi a un euro sostenibile a lungo termine, come barriera efficace contro il dollaro».
Nouriel, cosa pensa del futuro dell’Eurozona? E’ condannata?
Roubini: «L’Eurozona senz’altro procederà alla ristrutturazione del debito pubblico e di quello bancario. Prima in Grecia, poi in Portogallo e in Spagna; e se l’Italia e la Spagna perdessero l’accesso al mercato (cosa che a mio avviso potrebbe accadere) non vi sarà mai denaro pubblico a sufficienza – con un deficit che allora sarà triplicato – per tutelare questi Paesi. In secondo luogo, anche potendo agire sul debito bancario e sul debito pubblico per contenerli, non potrà esservi crescita economica senza un ripristino della competitività . E ciò non è molto verosimile – a meno di riportare l’euro alla parità con il dollaro- cosa alquanto improbabile- o di andare incontro a un doloroso processo di deflazione. Il rischio è quello di inasprire ulteriormente la recessione. Perciò, se non si è in grado di risolvere un problema di competitività e non si può procedere a una svalutazione, la sola opzione è quella di uscire dall’unione monetaria. A mio parere, nei prossimi 3-5 anni vi sono forti probabilità che i membri più deboli dell’Eurozona, a incominciare dalla Grecia e dal Portogallo, decidano che la permanenza nell’Unione comporta più costi che benefici».
Ian, come vede questa devolution europea?
Bremmer: «Innanzitutto, per quanto riguarda l’Europa sono generalmente più ottimista, anche perché vedo le cose da una prospettiva diversa. Sul piano economico, tutto quello che stiamo dicendo qui è ovviamente anche troppo sensato, ma politicamente gli attori dell’Eurozona hanno alcuni punti di forza: mi riferisco non solo ai leader europei e agli esponenti del mondo economico, che recentemente hanno sostenuto con decisione in tutto il continente l’importanza di proteggere la moneta unica, ma anche alla forza delle istituzioni europee.
E’ una situazione bruttissima e molto, molto ingarbugliata. Tuttavia in una prospettiva politica u4na prosecuzione mi sembra assai più probabile di una rottura. Ma ecco qual è il punto centrale: questo è stato l’anno dei rinvii. Ciascuno rimanda le soluzioni a un altro momento: lo stanno facendo gli europei, i giapponesi, e a quanto pare anche gli americani. Il maggior pericolo – anche se personalmente non lo vedo per il 2013- 2014 ma in un periodo più lontano – è che i cinesi facciano la stessa cosa, in una dimensione di gran lunga maggiore».
Benjamin Pauker, Foreign Policy – Washington Post / The Interview People
(Traduzione di Fabio Galimberti e Elisabetta Horvat)
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