by Sergio Segio | 5 Agosto 2011 7:11
LAMPEDUSA. Dall’alto dell’elicottero della Guardia Costiera la scena che si presenta è apocalittica. Duecento uomini, donne e bambini su un barcone in avaria che chiedono aiuto. Sono disperati, allo stremo, senza cibo ed acqua da almeno cinque giorni.
Hanno visto morire un centinaio di compagni di viaggio che sono stati buttati in mare perché i loro cadaveri erano già in putrefazione. E quando il velivolo sta proprio sopra il barcone e cala il cestello nel tentativo di recuperare un paio di quei dannati scoppia l’inferno.
«A decine di sono aggrappati al cestello, eravamo in difficoltà con l’elicottero, non potevamo sollevarlo perché forse li avremmo ammazzati. Non avevamo scelta, si aggrappavano l’uno all’altro per tentare di salire. Ma non era possibile e allora, sia pure con grande disperazione e dolore, abbiamo mollato il gancio e siamo rimasti ancora in volo lì vicino in attesa che arrivassero le motovedette della nostra Guardia Costiera, che dopo qualche ora sono giunte sul punto nave che avevamo segnalato a 90 miglia da Lampedusa, vicino alle coste libiche. Ma prima di mollare il cestello abbiamo lanciato loro viveri e acqua». È questa la drammatica testimonianza di uno dei marinai dell’equipaggio dell’elicottero della Guardia Costiera che era partito alcune ore prima da Catania.
Quando le motovedette sono giunte sul posto sono partiti i primi soccorsi. E a quel punto l’elicottero ha lanciato un altro cestello sul quale sono state issate tre donne, di cui una incinta, che erano in gravissime condizioni e rischiavano di morire. Poi l’elicottero, una volta trasferite a terra le tre donne, è ritornato indietro soccorrendo altri due disperati in gravi condizioni, anch’essi trasferiti nel poliambulatorio di Lampedusa.
È stata Fatima, una delle donne tratte in salvo, a raccontare l’ultima tragedia che si è consumata nel Mediterraneo: «All’inizio eravamo trecento, ma un centinaio, soprattutto donne, non ce l’hanno fatta e gli uomini sono stati costretti a buttare in acqua i loro corpi».
Qualcuno però poteva intervenire prima e non l’ha fatto. In zona c’era un rimorchiatore cipriota che già ieri aveva segnalato la presenza di quelle centinaia di extracomunitari partiti dalla Libia in gravi difficoltà . E lo sapevano anche i mezzi aerei e navali della Nato che da mesi operano in quel cielo ed in quelle acque. Ma nessuno ha mosso un dito. Il rimorchiatore si è tenuto a debita distanza dal barcone lanciando in mare due zattere di salvataggio per evitare che quei disperati potessero raggiungere il loro rimorchiatore che non poteva soccorrerli tutti.
Dopo il soccorso italiano è scattato l’allarme sulle vittime. I superstiti hanno ricostruito il viaggio: la partenza venerdì scorso dalle coste libiche, l’avaria al motore, l’agonia e la morte di un centinaio di persone, l’orrore dei corpi gettati in mare. Numeri ancora da confermare: è stato recuperato un solo cadavere. Ma che non intaccano la portata della tragedia.
I sopravvissuti sono stati trasferiti a bordo delle motovedette, diretti a Lampedusa, dove nella notte sono stati accolti e soccorsi.
Quella di ieri è la seconda strage della settimana. Lunedì scorso 25 immigrati sono stati trovati morti nella stiva di un barcone partito dalle coste libiche. Erano stati chiusi lì con la forza dagli scafisti, probabilmente colpiti a bastonate. Ma prima di loro molti altri migranti hanno trovato la morte in mare quest’anno. Oltre cinquantamila persone sono sbarcate in Italia dopo l’esplosione delle rivolte in Tunisia e Libia. Per 1.699 – secondo le stime – il mare Mediterraneo è diventato una tomba.
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