Protetti dall’amico Bouteflika con il sogno di tornare in patria

by Sergio Segio | 30 Agosto 2011 6:36

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TRIPOLI – Alla fine, la via d’uscita per il clan Gheddafi è l’Algeria: non il lontanissimo Venezuela, non lo Zimbabwe dove forse è difficile adattarsi. Meglio la fuga nel deserto di un Paese islamico, magari coltivando il sogno di un ritorno in patria, che un esilio anche dorato in una città  lontana, nel mezzo di una cultura troppo diversa, con l’incubo che un giorno bussi alla porta un sicario o scenda dal cielo una squadra di forze speciali occidentali con le manette pronte. Il governo di Abdelaziz Bouteflika è “quasi amico”: ha accettato il rischio di far arrabbiare i ribelli del Consiglio nazionale transitorio – che ieri hanno definito la decisione di Algeri «un atto di aggressione» – e sin all’inizio si era opposto alla no-fly zone richiesta dall’Occidente e all’intervento Nato. Ancora adesso rifiuta di riconoscere come interlocutore il Cnt «finché questo non prenderà  l’impegno di combattere Al Qaeda», perché secondo fonti governative algerine, membri della rete terroristica si sarebbero uniti agli insorti libici.
Insomma, come il vecchio regime di Tripoli, anche Algeri si sente minacciata dai gruppi salafiti e qaedisti e deve affrontare le stesse tensioni: una prima base di intesa nasce da qui. Da tempo, poi, gli analisti segnalavano che sui posti di confine sahariani, con Algeria, Ciad e Niger, le forze lealiste avevano sempre investito uomini e armamenti, senz’altro in previsione di giornate come queste.
L’Algeria è vicina, è piena di zone fuori dal controllo centrale, dove per la famiglia Gheddafi è facile trovare le complicità  necessarie per sfuggire alle ricerche dei nuovi governanti libici e della comunità  internazionale. A prendere la strada del paese vicino, finora, sono stati la moglie del colonnello, Safia, i due figli Hannibal e Mohammed, e la figlia Aisha, che sarebbe incinta: una gravidanza difficile, ormai giunta quasi a termine, che avrebbe impedito all’aggressiva giovane di comparire a fianco del padre durante queste giornate di scontro.
Se è vero che Muhammar Gheddafi, il suo delfino Seif Al Islam e il fratello Saadi sono rimasti in patria, a Bani Walid, un centinaio di chilometri a Sud-est di Tripoli, è facile immaginare che abbiano solo rimandato l’uscita dalla Libia. Bani Walid, non lontano da Misurata, è un bastione della tribù Warfalla, ancora fedele al vecchio regime e ostile al Cnt. I tre erano con tutta probabilità  a bordo di mezzi blindati nel convoglio di 60-80 auto avvistato sabato scorso in fuga da Sirte.
Secondo i ribelli, già  nelle scorse settimane Gheddafi aveva chiesto ai paesi vicini – Egitto, Marocco, Tunisia e appunto Algeria – di ospitare la sua famiglia, non lui direttamente. Non è ben chiaro come mai il colonnello si sia fermato su territorio libico: le sorti dello scontro non sembrano più in discussione. Forse il raìs, sostenuto dalle tribù tuareg di cui ancora gode l’appoggio, vuole organizzare un’ultima difesa per prendere tempo, necessario magari a costruire presupposti adeguati per una semi-latitanza che si annuncia lunga e difficile, anche per chi dispone di risorse immense. Il governo algerino per ora ha accolto la famiglia Gheddafi per «ragioni umanitarie», legate alla gravidanza di Aisha. Ma difficilmente potrebbe resistere alle pressioni internazionali, visto che sull’ex dittatore e su Seif pendono i mandati di cattura internazionali del Tribunale dell’Aja. Nel clan Gheddafi, poi, c’è anche un posto vuoto: il figlio Khamis, capo della famigerata 32esima Brigata, forse il più odiato dalla popolazione, sarebbe rimasto ucciso nel suo fuoristrada Toyota distrutto con un missile da un elicottero Apache britannico. La notizia viene da Skynews: è l’ennesima segnalazione della sua morte, stavolta però potrebbe essere quella buona.

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