Previdenza, chiave di volta dei tagli

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Mercoledì, nell’incontro con le parti sociali, il governo Berlusconi dovrà  mettere le carte in tavola. L’attesa è grande. L’anticipo del pareggio del bilancio al 2013, annunciato sotto la pressione dei mercati e dell’Europa, ha già  fatto emergere quanto sia superficiale la manovra: in particolare, la delega fiscale e assistenziale da 20 miliardi di euro.
Una cifra priva di contenuti. La parte fiscale, dicono, non cambia i conti pubblici. Il riordino delle oltre 400 detrazioni fiscali dovrebbe servire a finanziare la riduzione del numero delle aliquote. È dunque dal taglio della spesa assistenziale, 90 miliardi l’anno, che il governo Berlusconi intende estrarre il risparmio decisivo. Ma chi può sforbiciare l’assistenza del 20-22%senza fare macelleria sociale? I capitoli di spesa sui quali incidere sono quattro: le pensioni d’invalidità , le indennità  di accompagnamento, la reversibilità  e i doppioni tra detrazioni fiscali e misure assistenziali. L’Inps ha già  bloccato l’impennata delle pensioni di invalidità , avocando a sé funzioni di Asl e Regioni che delegavano ai Comuni. Ma c’è da recuperare. Le indennità  di accompagnamento senza guardare al reddito non hanno molto senso. Si possono riaffidare le due funzioni ai Comuni, che conoscono le persone e possono evitare sprechi, purché si pongano chiari tetti di spesa per evitare ai Comuni medesimi la già  nota tentazione del clientelismo.
Al proposito, il modello del Trentino pare ottimo. Gli assegni di reversibilità  sono 5 milioni per una spesa di 38 miliardi. L’Italia ha le condizioni più generose del mondo. Le si può rimodulare in base al tempo di convivenza, alla posizione lavorativa, all’età . Come per gli invalidi non mancano casi discutibili, ma di quanto stiamo parlando? Alla fine, tra tutto, si risparmieranno 4-5 miliardi. E così, come ha riferito ieri Mario Sensini, l’esecutivo si orienta a toccare le pensioni. Governo e Inps hanno più volte assicurato che i conti della previdenza pubblica sono stati messi in sicurezza. Anche con una crescita bassa. Bastano il passaggio dal sistema retributivo al più avaro sistema contributivo e l’adeguamento automatico dell’età  di pensionamento alla speranza di vita. Oggi si pone sul tavolo un’altra questione: il contributo del sistema previdenziale al pareggio dei conti dello Stato.
Il che vuol dire il superamento delle pensioni di anzianità  e la perequazione dell’età  della pensione di vecchiaia tra uomini e donne a 65 anni, che vuol dire 5 anni in meno di pensione per le seconde. I numeri, questa volta, sarebbero cospicui. Secondo l’Inps, nel 2010 hanno ottenuto la pensione di anzianità  84 mila uomini e 26 mila donne, i primi con un’età  media di 58 anni e 5 mesi, le altre con un’età  media di un anno inferiore. Hanno avuto accesso alla pensione di vecchiaia, invece, 32 mila uomini e 69 mila donne, i primi a 65 anni e 4 mesi in media e le altre a 60 anni e 8 mesi. Azzerando i trattamenti di anzianità , si erogherebbero meno pensioni e si incasserebbero più contributi per 2,5-3 miliardi l’anno, destinati a cumularsi nel tempo. Aumentando di 5 anni l’età  pensionabile delle donne, si avrebbe un risparmio modesto all’inizio e poi, via via, crescente. Uno studio che circola all’Inps stima un effetto di 3,5 miliardi nel 2015 che sale a 4,7 miliardi nel 2018.
Questi sono i freddi numeri di base. Poiché toccano la vita delle persone, vanno approfonditi e maneggiati con cura. Si possono dunque considerare anche opzioni intermedie e transitorie: l’eventuale passaggio dal calcolo retributivo al contributivo per chi volesse ritirarsi anzitempo; incentivi e disincentivi per chi anticipa e chi posticipa la quiescenza. Nessuno ha il verbo. Ma se si vuol davvero percorrere quest’ultimo miglio della riforma delle pensioni, due passaggi politici non possono essere elusi. Il primo riguarda la credibilità  della classe dirigente che propone la riduzione del welfare: la Confindustria, l’Abi e le altre organizzazioni imprenditoriali devono dire che cosa i propri associati sono pronti a dare di proprio per contribuire alla salvezza del Paese; i due rami del Parlamento devono formalizzare per iscritto e consegnare all’Inps la riforma del vitalizio, giusto per evitare che certe manine correggano poi, e gli altri enti di rango costituzionale, dalla Consulta al Quirinale, dovrebbero riallineare i trattamenti del proprio personale a quelli di uso generale, cancellando le clausole d’oro che pareggiano la pensione all’ultimo stipendio e la rivalutano come se stipendio anch’essa fosse. Il secondo passaggio riguarda le nuove generazioni.
Mantenere al loro posto 7-800 mila persone può rendere ancora più impervio l’accesso al lavoro dei giovani. Alcuni economisti negano tale pericolo. Altri lo paventano. Non abbiamo il tempo per le verifiche. Meglio sarebbe reinvestire come misura pro crescita una parte dei risparmi appena descritti nella fiscalizzazione pluriennale degli oneri sociali per i giovani neoassunti. E a tutti i giovani, troppo spesso destinati a redditi incerti e pensioni irrisorie, andrà  data l’opportunità  di destinare, se credono e per i periodi nei quali possono, una quota aggiuntiva del loro reddito, per esempio il Tfr, a una maggior contribuzione previdenziale da scegliersi in totale libertà  e a parità  di trattamento fiscale tra i fondi integrativi privati e l’Inps, ben sapendo che, in quest’ultimo caso, la maggior contribuzione andrebbe anche a beneficio dei conti pubblici.


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