by Sergio Segio | 11 Agosto 2011 6:57
Nella giornata di martedì, a far ruzzolare Wall Street di 600 punti, ci sono state quasi un milione di transazioni su una sola delle piattaforme online americane, quella di Ameritrade. Un record, raggiunto nel mese di agosto, tradizionalmente il più fiacco per gli affari. È un segno della nuova dimensione raggiunta dai mercati finanziari, come della loro influenza.
Quella del mondo in mano ai mercati – entità autonoma, impersonale, indipendente – è una vecchia utopia. Il problema è che l’intelligenza collettiva della finanza è bassa e le emozioni sono forti e volatili: la tempesta e il caos di questi giorni ne sono una prova. Oggi è più vero di ieri, come oggi, più di ieri, i movimenti dei mercati sono diventati decisivi. Anche perché sono cambiati i mercati.
Soprattutto nei momenti di ansia, sono dominati dalle voci. Il rally di martedì sera, che, all’ultimo minuto aveva fatto recuperare Wall Street, nasceva dalla voce che Goldman Sachs, mostro sacro della finanza americana, stesse comprando azioni a piene mani, convinta che la Federal Reserve avrebbe ricominciato a pompare soldi nell’economia. Il rally è svaporato, ieri, insieme alla voce. Sostituita, subito, da un’altra sull’imminente crollo di una banca francese. Quello che conta, qui, è l’oggetto di queste voci, che mostra come siano cambiati i mercati.
«Wall Street ha smarrito il suo obiettivo originario: creare capitale per le aziende» sostiene Mark Cuban, imprenditore miliardario e padrone dei Dallas Mavericks, una grande squadra di basket. «Wall Street, oggi è una piattaforma, da sfruttare con ogni mezzo tecnologico e intellettuale possibile». Il mercato, prosegue Cuban, è cambiato in pochi anni: «Sta diventando sempre più difficile investire in un’azienda in cui credi. Nel mercato non si discute dei risultati di specifiche aziende, ma di problemi macroeconomici che toccano tutti i titoli, attraverso gli indici, i derivati, i fondi. E’ un gioco matematico di scacchi, in cui i singoli titoli sono diventati i pedoni». Il gioco è quello delle transazioni computerizzate, in cui gli ordini di acquisto o di vendita scattano in nanosecondi, secondo complessi algoritmi.
Siccome, però, gli algoritmi si somigliano, gli ordini scattano tutti insieme, imprimendo al mercato violenti scossoni. L’immagine del «gregge», tradizionalmente applicata ai mercati, va aggiornata: le pecore sono meccaniche.
Il mercato computerizzato è come una pistola puntata, con il dito che tiene il grilletto premuto a metà . Ma, nel frattempo, nella finanza globalizzata, il bersaglio è diventato più complesso. Dietro il tornado di ieri sulle banche francesi, c’è la decisione dei fondi monetari americani di tagliare il più possibile i loro investimenti a breve termine, in larga misura concentrati sulle banche europee: la francese Bnp Paribas, da sola, assorbe oltre il 4 per cento dei finanziamenti dei fondi americani. Anche il caricatore è diventato più sofisticato: il boom della nuova finanza, fra opzioni, credit default swaps (scommesse sulla bancarotta di un debitore) e gli altri derivati, consente operazioni massicce, impegnando relativamente pochi soldi.
I quali, peraltro, non mancano: dopo la crisi del 2008, le banche centrali hanno inondato di liquidità le economie d’Occidente, a tassi d’interesse, tuttora, stracciati. In altre parole, in questi anni, la potenza di fuoco dei mercati si è moltiplicata, concentrandosi sull’andamento complessivo delle economie, mentre la crisi, la recessione, il ristagno svuotavano sempre più di credibilità i governi.
Più che sulle conferenze stampa di Obama o sulle dichiarazioni di Sarkozy, gli occhi dei mercati sono oggi puntati sulle agenzie di rating. Uscite ammaccate dalla crisi finanziaria del 2008, in cui portano una pesante responsabilità , per aver consentito e benedetto il bubbone dei subprime, Standard&Poor’s, Moody’s, Fitch hanno riguadagnato il centro della scena, applicando alle finanze statali i criteri e i parametri utilizzati per le finanze aziendali. Non tutti pensano che uno Stato possa essere giudicato con i criteri di un’azienda e, in particolare, che le possibilità di fallimento e bancarotta siano analoghe. Ma le agenzie di rating si sono dimostrate capaci di guidare i mercati, cioè di raggiungere quella situazione, in cui tutti gli operatori pensano che gli altri seguiranno le indicazioni di Standard&Poor’s o di Moody’s. Il risultato è che sono le agenzie di rating, oggi, a dettare l’agenda politica di superpotenze come gli Stati Uniti e l’Europa. Ci sono riuscite, riempiendo il vuoto lasciato dalla contemporanea paralisi della politica a Washington e a Bruxelles.
Negli Stati Uniti, lo scontro frontale fra democratici e repubblicani sta impedendo la scelta decisa di una politica, sia l’austerità , come vogliono i repubblicani, sia lo stimolo alla ripresa, come vogliono i democratici. In Europa, lo scontro è, piuttosto, nazionale: fra paesi dove l’economia tira, come la Germania, e quelli in cui ristagna, quasi tutti mediterranei. L’interminabile discussione sulle misure per sanare i debiti pubblici ha prodotto una serie di interventi all’insegna del «troppo poco, troppo tardi» che stanno prolungando la crisi. Di qua e di là dell’Atlantico, ad intervenire sono state le banche centrali, i cui strumenti, però sono limitati e, come dimostrano le iniezioni di liquidità post-crisi, hanno, a volte, effetti indesiderati.
Sono queste fragilità a consentire la corsa selvaggia dei mercati di questi mesi. La speculazione, spesso, le gonfia, a volte, le aggrava, fino a renderle insormontabili, ma raramente le inventa. In fondo, la funzione dei mercati è proprio quella di rivelarle. Con i mercati ipetrofici e sotto steroidi di oggi, però, è un processo con molti scossoni. E gli scossoni possono fare molto male.
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