Piccoli geni già  a quattro anni s’impara di più prima della scuola

by Sergio Segio | 24 Agosto 2011 5:25

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Le neuroscienze li chiamano “gli anni che durano per sempre”, l’età  fertile del cervello in cui si pongono le basi del successo futuro. Per questo lasciare i bambini da zero a 6 anni senza scuola né educazione è come lasciare una spugna senz’acqua e un campo senza aratro. “Probabilmente le avete dimenticate, ma le esperienze che avete fatto prima della scuola influenzano ancora oggi molti aspetti della vostra vita. A partire dalla confidenza con la matematica fino ad arrivare all’entità  dello stipendio” scrive la rivista Science nello speciale “Investire presto nell’educazione”. L’oggetto del contendere non è nuovo: a quale età  sia meglio iniziare la scuola. Gli studi scientifici però lasciano ormai pochi dubbi. Da zero a 6 anni la mente di un bambino vive le fasi più tumultuose e decisive della sua formazione, quelle in cui l’apprendimento avviene con più naturalezza e ha effetti più duraturi. Le ultime ricerche rivelano capacità  di manipolare numeri e parole insospettate fin dai primissimi mesi di vita. E la ricchezza del vocabolario di un bambino di prima elementare è in grado di dire molto sui suoi successi futuri all’università  e sul lavoro.
«Chi ha architettato il sistema scolastico dell’infanzia non conosceva come si sviluppa il cervello» conferma Pier Paolo Battaglini, direttore del centro per le neuroscienze “Brain” dell’università  di Trieste. «Nei primi 4 anni si raggiunge il picco di connessioni fra i neuroni. Il loro numero supera quello del cervello adulto. A quell’età  saremmo esseri straordinari, se non fossimo partiti da zero. Dai 4 anni in poi le connessioni diminuiscono. Si ha il fenomeno della cosiddetta “potatura”. Si mantengono solo le sinapsi più importanti». Già  nel momento in cui un bambino inizia a parlare, appaiono le differenze di classe sociale. «I figli di genitori della classe media a 4 anni conoscono in media il 54% dei nomi delle lettere, mentre quelli delle classi sociali più basse ne conoscono solo quattro» spiega Marco Carrozzi, che dirige la neuropsichiatria all’ospedale infantile Burlo Garofolo di Trieste». E dal momento – sostiene Science – che “l’educazione precoce pone basi così importanti per l’apprendimento futuro, andrebbe presa sul serio almeno quanto il periodo della scuola”.
Non così avviene in Italia, dove le strutture di nidi e materne sono ridotte all’osso. Di uno «spreco degli anni migliori per imparare» parla Benedetto Vertecchi, docente di pedagogia sperimentale all’università  di Roma Tre. «Nei confronti dell’infanzia abbiamo un atteggiamento custodiale: i bambini piccoli vanno tenuti buoni e basta. Come quando, alla fine del ‘700, i genitori iniziarono ad andare in fabbrica in Gran Bretagna e con i figli piccoli usavano uno straccetto imbevuto di gin. L’immagine oggi ci fa inorridire, ma non è poi così diversa dai grandi schermi degli asili. In Francia, al contrario, già  le materne si pongono l’obiettivo di educare attraverso curricula speciali per la prima infanzia. I risultati si vedono. A 3 anni i bambini sono più autonomi, sanno allacciarsi le scarpe e usare la forchetta». Tanto gli Stati Uniti credono nella scuola anticipata, che per mantenere in classe un milione di bambini disagiati di 3 e 4 anni l’amministrazione spende ogni anno 7,5 miliardi di dollari. Anche in tempi di crisi nera. Il programma si chiama “Head Start”: vantaggio in partenza. L’approccio americano, molto cognitivo, sfrutta spesso programmi al computer che misurano performance e incrementano competenze. In Italia la strada è diversa. Fra le poche iniziative per la prima infanzia spicca il programma “Nati per leggere” dell’Associazione culturale pediatri: una mamma o un papà  con in braccio il bambino (a partire da 6 mesi) e un libro aperto da leggere ad alta voce e sfogliare. Tanto successo ha avuto il progetto, che recentemente l’Associazione gli ha affiancato “Nati per la musica”.
L’idea trova entusiasta Italo Farnetani, professore alla Bicocca di Milano e autore di “Da zero a tre anni” e “L’enciclopedia del genitore”: «Se incontrano la musica nei primi anni di vita, i bambini non la lasceranno più. È anche un ottimo sistema per farli tornare di buon umore». A differenza di videogiochi e software per apprendere, libri colorati e canzoni «non tolgono la gioia di essere bambini». Quanto alla scuola «sarebbe bene rendere universale l’asilo e iniziare le elementari con un anno di anticipo». Un bambino da 3 a 5 anni è infatti, secondo Farnetani, «come la memoria di un computer, che assorbe tutto ciò che vi viene immesso. Per questo ha bisogno di vivere in mezzo alla gente, ascoltare racconti, vedere volti e colori, vivere sensazioni. Non vuole rilassarsi nella solitudine e nel silenzio come un adulto stressato, ma ricevere stimoli di ogni tipo. Più gli si parla, meglio è».
L’importanza del dialogare con i bambini è stata confermata da una catena di studi degli ultimi 5 anni. “Tra la nascita e i 6 anni lo sviluppo del linguaggio è rapidissimo. La conoscenza delle parole e della sintassi a 3 anni è un indice della comprensione di un testo al liceo” spiega David Dickinson della Vanderbilt University di Nashville. Perfino la ricchezza di gesti ed espressioni del viso che i genitori usano con il figlio a 14 mesi influenzano la ricchezza del suo vocabolario a 6 anni. Da quanto un bambino ascolta gli adulti attorno a sé, spiega Science, dipenderà  la sua capacità  di comprendere le frasi a 18 mesi. E la varietà  dei termini usati da madre o maestra a 30 mesi avrà  effetto sulla ricchezza del vocabolario un anno più tardi. «Senza contare – aggiunge Carrozzi – che tra il 15 e il 20% dei bambini arriva alle elementari con alcune difficoltà , ma solo il 3% ha un vero disturbo come la dislessia. Intervenire prima dell’inizio della scuola permette spesso di risolvere i problemi alla radice».

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