by Sergio Segio | 7 Agosto 2011 7:20
ROMA – La vetta dei 2 trilioni è vicina. Siamo, secondo i dati Bankitalia, a quota 1.890 miliardi, e per fine anno si salirà ancora più su. Come ormai ripetono tutti: il 120 per cento del Pil. Un debito il cui costo cresce al crescere degli spread e che, con la solita ruvidezza, Bossi ha paragonato a «carta straccia». Che ci espone all’assalto dei mercati e ci costringe a cure, improvvise, quanto severe e dolorose.
Per Berlusconi, che non dimentica mai di ricordarlo, la colpa è «dei governi che ci hanno preceduto». E’ così? Certo il passato è comunque gravido del presente, ma bisogna vedere come e perché. Fatto sta che nel lontano periodo 1961-1973 il debito-Pil dell’Italia era solo al 50,3 per cento del Pil. A Maastricht mancavano trent’anni. E poi? Poi comincia l’esplosione. Nel periodo 1974-1985 raggiungiamo l’80,5 per cento del Pil, nel 1990 siamo al 94,7 per cento, nel 1995 il picco storico è del 121,5 per cento. Toccò a Romano Prodi, affiancato da Ciampi, per raggiungere l’obiettivo dell’euro, stringere la cinghia e riportare il livello al 109 per cento nel 2000.
A dare la caccia alle responsabilità si rischia di non uscirne se si guarda alla storia. Senz’altro l’invecchiamento demografico ha gonfiato a partire dai primi Anni Novanta le pensioni (incidevano per un quarto nel 1980 e ora hanno superato il 32 per cento). E furono necessari i decisi interventi di riforma di Amato-Dini-Prodi. La sanità è stata inarrestabile: è passata, nello stesso periodo, dal 13,6% al 15,3%. A guardare le tabelle della recentissima Commissione Giarda, sembra che anche le spese per gli apparati burocratici dello Stato siano incomprimibili: la voce «servizi generali» incideva per il 12,3 nel 1980 e pesa il 13,8 per cento dell’intera spesa delle amministrazioni pubbliche nel 2009, a dispetto di tutte le campagne di tagli annunciate dai vari governi.
La collezione delle norme che hanno acceso il boom del nostro debito è sterminata. Negli anni Settanta le pensioni italiane cominciarono ad essere calcolate sugli ultimi stipendi (oggi non è più così), furono indicizzate all’inflazione, nel 1971 nacque la Gepi e vennero assunti 600 mila dipendenti pubblici. Tutta colpa dei «formidabili» Anni Settanta? Altrettante responsabilità vanno attribuite agli Anni Ottanta: l’economia cresceva ma i governi, segnati da un alto tasso di corruzione, non ne approfittarono per risanare. Ma forse è agli ultimi dieci anni, dopo l’introduzione dell’euro che bisogna guardare per trovare le responsabilità del rischio-default dell’Italia di oggi. Nel periodo 2001-2006 con Berlusconi e Tremonti si evitò accuratamente di affrontare il problema ricorrendo alle «una tantum»: 19,3 miliardi furono incassati con il condono tombale e furono cartolarizzati gli immobili pubblici senza però migliorare i conti dello Stato. Anzi, già nel 2005 la Ue estrasse il «cartellino rosso» e ci mise sotto accusa per deficit eccessivo (giunto al 4,3%). Dopo la parentesi di Padoa Schioppa, che nel 2007 ridusse il deficit-Pil al 2,7%, siamo tornati nella tempesta: dovuta, in parte, alla crisi internazionale. Ma sono in molti a chiedersi se, ad esempio, i due miliardi destinati alla riduzione dell’Ici nel 2008 non potevano essere spesi per dare un po’ di fiato all’economia e se, anche stavolta, si è persa l’occasione per risanare.
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