Obama, Nato, Francia Chi ha vinto la guerra?

by Sergio Segio | 23 Agosto 2011 6:18

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BRUXELLES — Fuori dal deserto, la guerra senza padri ha avuto due culle, al Palazzo delle Nazioni Unite di New York e al quartier generale della Nato di Bruxelles. E in quest’ultimo luogo, se si chiede chi abbia vinto lo scontro in Libia, al di là  delle repliche ufficiali può capitare di sentirsi rispondere così: «Per favore, non dimenticate il nome». Non è una battuta. Il nome è quello della missione militare: «Operation Unified Protector», più o meno «Operazione protettore unificato». «Quindi l’obiettivo non era un cambio di regime, né l’eliminazione o l’esilio di un governante, né un’occupazione militare — è la spiegazione ribadita — ma la protezione dei civili, realizzata anche con l’embargo delle forniture d’armi, con i pattugliamenti navali, e l’imposizione della no-fly zone, l’area di interdizione al volo». Tutto questo, secondo la risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, del 27 marzo. E con un mandato che durerà  ancora fino al 27 settembre. Muammar Gheddafi minacciava la sua popolazione? Certo, e perciò la Nato ha sparato sui suoi carri armati.
«Se dunque qualcuno ha vinto una guerra in Libia — è la conclusione scontata — sono i ribelli libici». Sono le risposte politiche formali, con tutte le inevitabili ambiguità  del caso. Ma qualcuno, alla fine, questa guerra l’ha pur vinta: Barack Obama? La Nato con Obama o da sola? La Francia, capofila degli interventisti? E in un caso e nell’altro, può dirsi questa la prima vera guerra vinta dall’Alleanza Atlantica? La risposta sta probabilmente in un insieme di fattori, che si sono ben articolati nel corso dei 5 mesi di operazioni; e che alla fine sono confluiti nell’offensiva dei ribelli che avevano ritrovato forza e morale. Nella prima fase, la carta vincente è stata l’aver bloccato subito i rifornimenti di armi, con i pattugliamenti navali; Tripoli acquistava diavolerie da tutto il mondo, Corea del Nord compresa, e si è trovata quasi di colpo a secco. Poi, c’è stato il ruolo degli Usa: che è stato quello di apportare tutto il peso della tecnologia americana — il New York Times citava ieri il ruolo determinante degli aerei senza pilota, i droni Predator, negli ultimi giorni — ma anche di aver saputo assumere una posizione quasi da Paese osservatore, dopo le prime settimane di operazioni. Per motivi legati al concomitante impegno in Afghanistan, alle convinzioni di Obama, e alla preoccupazione di non trovarsi coinvolto nell’ennesimo conflitto con una nazione islamica, questa volta lo «sceriffo» americano ha lasciato la primissima fila a inglesi e francesi, e probabilmente è stata una scelta giusta.
Dal secondo mese di operazioni in poi, si sono rivelati utili sul terreno anche i commandos infiltrati dalle forze speciali inglesi e francesi, che all’inizio avevano avuto problemi di coordinamento con i ribelli. Hanno «chiuso» le filiere di rifornimento delle armi, hanno affiancato i rivoltosi nella logistica e nella gestione delle comunicazioni, usufruendo anche dei satelliti. E alla fine, le varie forze in gioco si sono integrate quasi automaticamente: secondo la Nato, l’offensiva dei ribelli ha fatto sì che i mezzi pesanti di Gheddafi venissero allo scoperto e potessero essere così colpiti dall’alto, senza un vero e proprio coordinamento. Questo sarebbe il perché di quelle 126 incursioni sferrate il 21 agosto, primato di tutta la campagna militare. C’è stata, dietro le quinte, anche una protagonista «coperta» del gioco: la Polonia, che — dicono varie fonti della Ue — avrebbe armato gli stessi ribelli consentendo così a Parigi e Londra di restare più dietro le quinte.
Non ci sono solo i dettagli operativi. Ora che la si rilegge alla luce degli ultimi eventi, la campagna di Libia appare sempre di più come un insieme di campagne, almeno politicamente. Fra i grandi, ognuno ha giocato la sua. E ha frenato, o accelerato, a seconda degli interessi geostrategici, litigando per la guida delle operazioni (per tacere di altri interessi meno evidenti, come quelli legati al petrolio). Degli Usa, si è detto. La Gran Bretagna ha avuto le stesse loro preoccupazioni, anche di prestigio geopolitico, con in più quella di non perdere il contatto con le rivoluzioni del mondo arabo. E poi la Francia, prima e più focosa sostenitrice dell’intervento ma anche imbrigliata da memorie storiche e preoccupazioni presenti. La Francia, che dal 1966 al 1995 è stata fuori dalla Nato, torna a imbracciare di nuovo le armi della Nato, e proprio in quel Nord Africa che — Algeri non è lontanissima da Tripoli — l’ha vista potenza coloniale. Nonché amica di dittatori come il tunisino Ben Ali. Parigi ha voluto fortemente la vittoria, con un suo marchio: in aprile, il suo ministro degli Esteri Alain Juppé accusava duramente la Nato di non fare abbastanza per proteggere i libici. Ma chissà  se in questa sua protesta, e nel desiderio di vittoria, ha pesato anche la domanda bruciante che lo stesso Juppé rivolgeva al Senato: «Ci si rimprovera di aver mancato di reattività  davanti alla primavera araba: ma chi ha visto arrivare il colpo?».

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