Obama e la Ue non frenano l’emorragia Inizia il lungo inverno dell’economia
«L’America non ricadrà nella recessione», promette Barack Obama. «Non ci sarà recessione in Europa», gli fa eco un certo Herman Van Rompuy che porta il titolo ambizioso di presidente dell’Unione. Due smentite fanno una conferma? Sulle Borse in caduta pesano i bollettini catastrofici che arrivano dall’economia reale.
Il Brasile segnala per la prima volta da anni una decrescita (meno 0,2% il Pil del trimestre), la Germania si sta arenando: è la fine di due «miracoli» gemelli, un gigante emergente e la più solida delle vecchie economie industrializzate.
Due macchine da guerra dell’esportazione, che non possono crescere se i loro mercati di sbocco sono fermi. Primo fra tutti quello americano, dove in un sol giorno arrivano dati pessimi sulla disoccupazione Usa che risale, le vendite di case sempre più giù, la produzione industriale in sofferenza su tutta la East Coast.
Che la recessione sia alle porte lo dice un altro indicatore attendibile: i rendimenti dei titoli pubblici precipitano, per effetto di una corsa verso investimenti tornati improvvisamente «sicuri» (in mancanza di meglio). Ecco il Bund tedesco decennale al 2,17%. Il Treasury bond americano a dieci anni scende addirittura sotto il 2%. Più basso di così c’è solo il titolo del Tesoro giapponese, all’1%, e non a caso si tratta di un paese dove la crescita è sparita ormai dagli anni Novanta. Quei tassi lanciano un messaggio all’unisono: per accettare dei rendimenti così bassi gli investitori non vedono né inflazione né crescita all’orizzonte. Prestare i propri soldi allo Stato – almeno a questi tre: Germania Stati Uniti Giappone – è metterli in cassaforte preparandosi a un lungo inverno. Questa corsa ai buoni del Tesoro decennali americani è una nuova smentita della Standard & Poor’s, del suo «downgrading» che metteva in cima ai problemi del momento la salute del debito pubblico degli Stati Uniti. Per una beffarda coincidenza, il vero schiaffo che S&P riceve dai mercati giunge nello stesso giorno in cui il Dipartimento di Giustizia di Washington apre un’indagine su quest’agenzia di rating. L’inchiesta è sacrosanta, riguarda le gravi responsabilità di tutte le agenzie di rating che per incompetenza, collusione e conflitti d’interessi regalarono la «tripla A» ai titoli tossici che contenevano crediti inesigibili sui mutui subprime. Una vicenda criminale ma vecchia ormai di quattro anni; ricordarsi solo ora dei danni enormi creati da quei rating truccati ha il sapore di una rappresaglia dell’Amministrazione Obama dopo l’onta del declassamento. Acqua passata, anche se il problema del debito costringe Obama a mandare a Pechino il suo vicepresidente Joe Biden, in una delicata missione presso il «creditore sovrano» degli Stati Uniti. Biden incontra Xi Jinping, anche lui vicepresidente, ma soprattutto erede al trono di Hu Jintao, destinato al comando supremo della Repubblica Popolare. Questa visita a Pechino in un momento di massimo allarme sui mercati globali «fotografa» un’impasse senza risolverla. Biden registra dal suo interlocutore Xi la preoccupazione più grave che assilla il governo cinese: lo spettacolo di totale assenza di leadership in Occidente. Perfino nel 2008, all’apice della grande crisi sistemica, sul versante politico la reazione fu migliore di quella attuale. Nel 2008 e 2009, tra il piano Paulson salva-banche e i vari summit G8 e G20 promossi da Gordon Brown e poi Obama, si ebbe il tentativo di costruire una regìa, un abbozzo di global governance per trainare l’Occidente fuori dalla tempesta perfetta.
Oggi, neanche quello. Perfino una mossa a lungo auspicata e sollecitata come la rivalutazione del renminbi, diventa un’arma a doppio taglio. Per anni l’Occidente chiese alla Cina di fare la sua parte per sanare i macro-squilibri globali, rivalutando la moneta per importare di più. Il gesto di allargare la banda di fluttuazione del renminbi, annunciato a Pechino, oggi ha un sapore ambiguo. Può accelerare il deprezzamento congiunto di dollaro ed euro, la corsa verso beni rifugio come l’oro, in ultima istanza il disordine monetario può aggiungersi al pericolo di recessione e aggravarlo. Ad accentuare il nervosismo arriva la decisione della Federal Reserve di avviare un esame della vulnerabilità delle banche americane ai default possibili nell’eurozona. Nessuno ha più fiducia in nessuno. Una situazione simile si verificò nell’autunno 2008 con il crac della banca Lehman, quando il sospetto dilagò fra tutti gli attori del sistema finanziario, che il proprio partner fosse «il prossimo della lista». Un sospetto mortale, la cui conseguenza fu il congelamento del credito all’economia.
Il tracollo dei mercati ieri è una sentenza spietata sul vertice di martedì fra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Non si è fatto un millimetro di progresso su temi ambiziosi come la creazione di eurobond, quei «titoli pubblici dell’eurozona» che forse sarebbero un argine al contagio della sfiducia, darebbero finalmente al mercato unico europeo una solidità finanziaria e il rispetto degli investitori. Ancora più grave è il fatto che da quel vertice non è uscito un frammento d’idea per rilanciare la crescita, nessuna strategia anti-recessione, l’unico «scudo» davvero essenziale in questa fase.
Ci sta provando da parte sua Obama: il presidente americano ieri è partito per una finta vacanza sull’isola Martha’s Vineyard, che passerà consultando i suoi consiglieri economici per preparare «l’annuncio del Labor Day». Subito dopo la festa del lavoro (5 settembre) Obama lancerà un piano per la crescita e per l’occupazione. E’ un rovesciamento di priorità rispetto alle ultime due settimane che lo hanno visto completamente appiattito sul tema del debito (anche grazie a S&P). Il presidente americano ha in mente una «strategia dei due tempi»: prima bisogna rimettere in moto l’economia, rilanciare le assunzioni, ridare fiducia e potere d’acquisto; contestualmente bisogna mettere a punto dei tagli al deficit pubblico più severi di quelli annunciati finora, ma la cui entrata in vigore deve essere rinviata, a quando sarà sventato il rischio di ricaduta nella recessione. E’ l’unico percorso per evitare di «rifare il 1937»: l’anno terribile in cui Franklin Roosevelt interruppe prematuramente le politiche di spesa pubblica del New Deal, e l’America ricadde nella Grande Depressione. L’intuizione di Obama si snoda su un sentiero strettissimo, per ragioni non finanziarie bensì politiche: i dibattiti tra i candidati repubblicani alle presidenziali hanno visto il trionfo della demagogia anti-Stato. Tutti i leader repubblicani hanno annunciato che rifiuterebbero ogni compromesso che contenga nuove tasse, perfino quelle tasse sui miliardari auspicate a gran voce dal più ricco (e meno tassato) di tutti, Warren Buffett. In questo vuoto di leadership è inefficace la supplenza delle banche centrali. Fed e Bce continuano a pompare liquidità nei mercati, con il tasso zero Usa o con gli acquisti di titoli pubblici. Ma nella paura che paralizza l’economia, quella liquidità non rifluisce dove servirebbe. Le imprese accumulano montagne di cash, o investono solo in maxifusioni alla Google – Motorola, o esportano capitali nei pochi paesi emergenti ancora sicuri. I consumatori che possono farlo tesaurizzano, riducono i debiti, accantonano risparmi, per prepararsi al peggio.
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