Obama e la resa incondizionata

by Sergio Segio | 2 Agosto 2011 7:14

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E visto che col loro ricatto i parlamentari repubblicani e gli esponenti del Tea Party hanno ottenuto già  più di quel che volevano (e che anzi neanche osavano sperare) è anche possibile che giochino al rilancio e minaccino di rescindere l’accordo appena trovato se non strappano altre concessioni. Si profila anche un altro scenario: contrariamente a quel che si crede, negli Usa un partito di sinistra esiste ed è costituito dal progressive caucus, il «gruppo parlamentare progressista» che conta 75 deputati (su 435, e cioè il 17,2% della Camera dei rappresentanti). Ora è possibile che tutto il progressive caucus o una sua parte voti contro il compromesso e si unisca così ai deputati del Tea Party che anch’essi voteranno contro l’accordo ma da destra, e che quindi il compromesso sia respinto dalla Camera dei rappresentanti. Lo sapremo probabilmente questa mattina (il voto era atteso ieri sera, notte in Italia).
Nel frattempo due considerazioni. La prima sul presidente Barack Obama che dimostra, una volta di più, di aborrire il confronto aperto e di essere incapace di tenere duro. Se alle Termopili ci fosse stato lui al posto di Leonida, non staremmo qui a raccontare quella storia, ma tutti gli opliti spartani (democratici) avrebbero trascorso la loro vecchiaia prigionieri dei persiani (repubblicani) in catene a Ectabana o Susa. Obama non solo si è rimangiato quasi tutte le promesse elettorali (dal chiudere Guantanamo al promuovere la produzione di energie riciclabili), ma dallo scorso novembre, dalla batosta elettorale di mezzo termine, ha concesso tutto e di più: sul rinnovo dei tagli delle tasse voluti da Bush nel 2001 e che erano in scadenza, con i milionari Obama è stato ancora più generoso del suo predecessore: non solo ha confermato tutti i tagli, compresi quelli per super ricchi, ma ha fatto loro un altro megaregalo. Prima erano esentasse tutte le eredità  inferiori a 3,5 milioni di dollari per un singolo o a 7 milioni per una coppia; sopra questa cifra l’eredità  era tassata al 45%. Dallo scorso dicembre invece la quota esente è salita a 10 milioni per le coppie (e 5 per gli individui) e per di più la tassa è scesa al 35% (un 10% in meno). Stesso cedimento su tutta la linea quando si è trattato di discutere la finanziaria.
Il compromesso di domenica notte cede sull’ultimo bastione su cui si erano attestati i democratici: avrebbero accettato tagli alla spesa sociale solo in cambio di meno riduzioni fiscali ai super-ricchi.
Invece nel compromesso il capitolo tasse è rinviato a un supercomitato paritario (in cui i repubblicani avranno sei membri su 12 e quindi non farà  nulla), mentre per il taglio alle spese sociali è stato accettato il principio dell’automatismo: dopo 918 miliardi di tagli subito, se non saranno raggiunti altri accordi, si procederà  a ulteriori tagli per per 1.200 miliardi di dollari che diventeranno effettivi all’inizio del 2013. La (flebile) speranza dei democratici è che per allora gli americani abbiano eletto un nuovo parlamento, più «ragionevole».
Barack Obama pensa di avere guadagnato nell’opinione pubblica accreditandosi come presidente responsabile pronto a cedere e a perdere la faccia pur di salvare la nazione. Il suo calcolo potrebbe anche riuscire, ma solo a una condizione: che la disoccupazione cominci davvero a calare negli Usa. Ma, come ha spiegato per l’ennesima volta Krugmann, proprio i tagli alla spesa pubblica tarperanno le ali a una vera ripresa (ha paragonato questi tagli ai salassi cui ricorrevano i cerusici medievali e che finivano per ammazzare il paziente).
La seconda considerazione, più strutturale e più di lunga durata, è la profonda asimmetria che si è creata tra repubblicani e democratici: quando il Congresso è democratico e il Senato ed il presidente sono invece repubblicani, questi ultimi procedono a realizzare il loro programma come rulli compressori senza la benché minima resistenza democratica. Lo si vide bene negli anni dal 1980 al 1992, quando gli Stati uniti vissero quella vera e propria «rivoluzione reazionaria» che fu il reaganismo: quando nell’80 Ronald Reagan vinse, i democratici ottennero alla Camera una maggioranza di 243 seggi contro 192 (praticamente l’inverso della camera attuale: 242 repubblicani contro 193 democratici); nel 1984 la maggioranza democratica alla Camera divenne ancora pià  schiacciante (258 contro 177); nel 1988 crebbe ancora (260 contro 175) e in quell’anno i democratici conquistarono la maggiornaza anche al Senato. Eppure Reagan e poi George Bush sr. poterono procedere alla loro controrivoluzione, ai loro tagli fiscali per i ricchi senza incontrare opposizione. Invece adesso sono i repubblicani a dettare condizione anche se il presidente e il Senato son ambedue democratici.
Il punto è che i democratici sono molto più divisi tra loro di quanto siano i repubblicani; che tra i democratici c’è un’ala destra più a destra di Attila, mentre tra i repubblicani c’è qualche liberal sui problemi di costume (aborto, gay, minoranze) ma sono tutti di destra estrema in economia. Quest’asimmetria va ben al di là  della cedevolezza caratteriale di Obama. Finché i democratici non risolveranno questo problema, per loro non c’è speranza. E la nazione più potente del mondo sarà  in ostaggio degli integralisti del mercato, dei fondamentalisti capitalisti che rischiano di devastare la prosperità  statunitense (e di qualche altro paese, by the way).

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