Non rassegnarsi al mercato sovrano

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È QUESTO – ancora più degli indici economici o del reddito reale dei cittadini – a essere sottoposto a una minaccia che gli Stati europei non conoscevano e con la quale sono costretti a misurarsi con difficoltà  crescenti.
Non mi riferisco adesso al peso che ha assunto la materia economica nelle decisioni politiche. Da quando le esigenze vitali degli individui e delle popolazioni sono diventate l’obiettivo prevalente, e lo stesso criterio di legittimazione, del potere, da qualsiasi parte esso venga esercitato, il condizionamento economico della politica è un dato naturale e inevitabile. Ormai non è neanche concepibile un indirizzo politico autonomo rispetto alle dinamiche economiche. Ma oggi ci troviamo di fronte a un salto di qualità , che riguarda l’incapacità , da parte della politica, di prevedere, orientare, governare i processi economici che la investono, anziché limitarsi a subirli passivamente, come accade in particolare in Italia.
In nessuna delle crisi precedenti la recessione economica si traduceva direttamente in instabilità  politica, arrivando a poter determinare la caduta dei governi, come sta avvenendo oggi. Mai la politica è apparsa così indifesa rispetto all’andamento delle borse, o addirittura a bande di speculatori che scommettono sul fallimento di interi Stati, rischiando di fatto di provocarlo. Che ciò possa accadere anche attraverso un insieme di dispositivi finanziari capaci di aggredire un obiettivo sensibile in maniera simultanea da molteplici parti, è un ulteriore sintomo della debolezza della politica, non solo rispetto all’economia, ma anche all’apparato tecnologico che ormai fa tutt’uno con essa. Stretta in tale morsa, la sovranità  statale appare ridotta ai minimi termini, se persino la prima potenza mondiale è soggetta a spinte che mostra di non saper controllare adeguatamente. In alcuni casi si direbbe che gli Stati non siano in grado di decidere neanche i tempi della propria resa.
A questa drammatica perdita di autonomia – che, ripeto, non ha equivalenti nella intera storia europea – è però possibile reagire in due modi diversi ed opposti. O assecondare la deriva impolitica cui sembriamo destinati, frantumando ulteriormente quel che resta della sovranità  statale – è il progetto fatto proprio, in Italia, dalla Lega, ma non assente, con modalità  diverse, anche in altri Paesi. O rilanciare la categoria di sovranità  – e con essa la forza della politica – su di un piano più ampio ed articolato che, nel nostro continente, non può essere che quello, certo problematico, dell’unione europea.
È vero, infatti, che l’unificazione della moneta è stata già , a suo modo, un atto politico – senza il quale gli Stati europei sarebbero rimasti indifesi rispetto alla concorrenza di altri Stati di dimensione continentale, quali gli Stati Uniti, la Russia o la Cina. Ma si è trattato di un atto politico potenziale ed incompiuto, che poteva acquisire piena realtà  soltanto assumendo una portata istituzionale, se non anche costituzionale. Altrimenti – come di fatto è stato – quella potenzialità  politica è destinata a rimanere sulla carta, sempre esposta a tentazioni egemoniche da parte dei Paesi più forti, come Germania e Francia, e alla fragilità  economica di quelli più deboli. La recente vicenda libica – con tutte le ambiguità  che l’hanno caratterizzata anche da parte degli Stati europei intervenuti a fianco degli insorti – mette questa condizione di incompiutezza in piena luce. Senza potersi esprimere nella sfera decisiva della politica estera, nessuna sovranità  può considerarsi tale, in un orizzonte globale in cui protezione di popolazioni indifese e sostegno di nuove aspirazioni democratiche, reperimento di risorse energetiche e gestione dei flussi migratori si intrecciano in uno stesso nodo.
Si tratta di un quadro problematico non più alla portata dei singoli Stati europei e che soltanto una politica estera unitaria può affrontare nella sua globalità . Per potersi salvare, insomma, quel potere che per cinquecento anni si è definito sovrano nei Paesi della ‘vecchia Europa’ deve ampliare il proprio orizzonte al di là  delle frontiere di organismi nazionali non più in grado di tutelare gli interessi di coloro che li abitano. Da questo punto di vista ciò che un tempo si definiva pubblico, perché di competenza dello Stato, in opposizione ai beni privati, appare oggi limitato e parziale rispetto agli interessi comuni dell’Unione Europea. Quello che si stenta ad avvertire è che questo bene comune – costituito dalla medesima Unione – non è qualcosa di ulteriore rispetto a quanto appartiene ai singoli cittadini e ai loro Stati, ma è la forza motrice che garantisce e potenzia entrambi.


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