Non mettete, vi prego, l’aureola a Terzani
Nasser morì a fine settembre, e non fu semplice raggiungere il Cairo in tempo per i funerali. L’infarto che aveva stroncato il rais egiziano era per molti la conseguenza del sanguinoso scontro, ad Amman, tra i feddayn palestinesi di Arafat e i beduini di Hussein, re di Giordania. Si diceva che Nasser fosse morto di crepacuore per la lotta fratricida. Avevo assistito a quella battaglia tra arabi e raggiungendo le rive del Nilo, dove sembrava che tutto il Medio Oriente si riversasse, avevo l’impressione di andare a vedere l’ultimo atto della tragedia di Amman, rimasta nella storia come il “settembre nero”.
Al Cairo le comunicazioni erano pessime. Troppi cronisti. Con la speranza che almeno qualche telegramma giungesse puntuale al giornale, ne mandavo uno ogni ora. Tutti brevi, concisi, con i dettagli della imponente manifestazione funebre, cui partecipavano i contadini della Nubia arrivati con barche, asini e cammelli e capi di Stato con i loro jet.
L’emergenza affidava alla redazione il compito di aggiustare e incollare i miei dispacci al fine di dare una forma all’articolo destinato alla pubblicazione. Era il 1970 e non esistevano né il computer, né i telefoni satellitari.
Quando ritornai a Milano andai a ringraziare i colleghi per il tempo che mi avevano dedicato ed è cosi che incontrai Tiziano Terzani. Era stato lui a fare un ottimo lavoro.
Era un bel marcantonio. Non era ancora un giornalista professionista, ma si capiva subito che non era un semplice praticante. Aveva già girato il mondo e si sentiva dai suoi discorsi che aveva vissuto il ’68 americano con intensità , con entusiasmo, alla Columbia University dove aveva studiato la storia cinese. Amava la Cina di Mao, l’aveva idealizzata come molti di noi, e sognava di andarci come corrispondente. Nella sua cordialità , traboccante giovinezza, c’era una leggera punta di condiscendenza, non sempre reperibile sotto l’esibita disponibilità . Seguirono rari incontri. Ne ricordo uno un po’ goliardico, sempre a Milano, in occasione di un premio giornalistico che mi era stato dato. Tiziano e alcuni suoi amici mi mandarono in albergo, in piena notte, come premio “supplementare” una bella e spiritosa collega, con la quale bevvi qualche whisky e facemmo grandi risate.
Poi, visto che Il Giorno, per il quale entrambi lavoravamo, non era abbastanza ricco per mandarlo in Estremo Oriente, decise di andare a Singapore per conto suo.
Voleva avvicinarsi alla Cina, dove la rivoluzione culturale non si era ancora del tutto spenta. Aveva grinta quel bel marcantonio.
Aveva mandato al diavolo l’Olivetti dove l’attendeva un avvenire di dirigente, e adesso mandava con la stessa disinvoltura a quel paese il giornale in cui era appena diventato professionista.
Voleva seguire la guerra in Vietnam e in Cambogia, nell’attesa che la Cina si aprisse. Qualche mese dopo fui mandato dal Corriere della Sera in Estremo Oriente come inviato permanente, e feci una sosta a Singapore. Ero indeciso se installarmi lì, o a Hong Kong o a Bangkok o a Saigon. La porta di Pechino era sbarrata. Avevo avvertito del mio arrivo Tiziano, che conoscevo appena, ma fu una tappa breve perché lo sganciamento delle truppe combattenti americane ci impegnò a Saigon, dove andammo insieme, per parecchie settimane.
E da Saigon filai a Tokyo dove c’era una crisi monetaria. Quando ritornai a Singapore, quasi due mesi dopo, scoprii che Angela, la moglie di Tiziano, mi aveva trovato un bungalow di proprietà delle Autorità portuali. E quindi aprii infine le mie valige, nel frattempo coperte di muffa, e andai ad abitare a dieci minuti d’automobile da Alexandra Park dove vivevano i Terzani.
Cominciò allora la nostra amicizia durata più di trent’anni. In realtà si era accesa già nell’autunno del ’70, in occasione dei funerali di Nasser, quando provai una forte simpatia, mista di ammirazione, per quel redattore che sembrava un primo attor giovane. Poi il caso ci riunì in Estremo Oriente per anni. Un Estremo Oriente che pensavo di conoscere, avendovi vissuto a lungo da ragazzo, quando nessuno riusciva a tenermi al guinzaglio, e poi ancora da giornalista. Con stupito piacere scoprii che lui, Tiziano, in pochi mesi aveva imparato molto più di me dell’Asia che entrambi amavamo.
Finche l’amico è in vita può accadere che ci si ribelli a certi suoi atteggiamenti, con la sua morte da compagno in carne ed ossa, con tutte le debolezze di un essere umano, l’amico si trasforma in un’entità ideale.
Nel celebre caso di Montaigne, l’amico defunto, Etienne de La Boétie, diventò per lui più una tecnica filosofica che una persona. Seneca consigliava ai suoi seguaci di fare cosi con tutti gli amici: avendo trovato una persona stimabile, disse loro, dovete visualizzarla come una presenza spettatrice costante nella vostra vita. Lo sottolinea Sarah Bakewell, studiosa di Montaigne e suppongo devota a Seneca, e professoressa di scrittura creativa alla City University di Londra. Ed è lei che mi ha aiutato a capire la mia indignazione, la mia collera, quando leggo quel che si scrive di Tiziano morto. Ho l’impressione che me lo scippino.
È infatti un furto con lo strappo averne fatto un guru, un “budda”, addirittura un San Francesco. Un personaggio ben lontano dall’entità ideale, basata sull’esperienza concreta di una vita comune, che si è formata e stampata nella mia memoria.
Se dessi retta a coloro che hanno agghindato il ricordo di Tiziano con artifici di bassa retorica, dalla quale emergono a volte zaffate di zolfo, perché la santificazione antimodernista e americanofoba è argomentata con idee che a volte sanno di “nuova destra”; se dessi ascolto a questi cultori del Tiziano guru, non potrei certo considerare l’amico morto «una presenza spettatrice costante» di quel che mi resta di vita. Quel Tiziano ridisegnato per farne un’icona è un personaggio a me sconosciuto.
Per fortuna nel primo Meridiano (ne seguirà un secondo) che Renata Colorni, direttrice della collana di Mondadori, gli ha dedicato ci sono i suoi scritti, grazie ai quali si può scrostare quel che gli è stato incollato addosso.
Sono scritti che mi riportano al primo incontro milanese fino all’ultimo nella bella casa di Bellosguardo, quando lui sentiva già il fiato della morte sul collo, ed io la vedevo nei suoi occhi. In quell’estrema occasione mi disse: «Quante cose abbiamo vissuto insieme». C’era una punta di inevitabile nostalgia nella breve frase, non certo banale in quella situazione. Ma eravamo ormai su frequenze diverse. Ce ne eravamo accorti a Kabul, nel 2001, durante le intense, affettuose, lunghe conversazioni in cui evitavamo di parlare di quel che ormai ci divideva: io ero sempre un cronista, inseguivo gli avvenimenti, lui inseguiva le idee, incalzato dalla morte. Lasciai Kabul per primo, diretto a Tora Bora, sull’Indu Kush, dove c’era un freddo cane. Ma lasciai il mio sacco a pelo a Tiziano, che dormiva per terra, in un albergo affacciato sul mercato.
A prima vista si capiva quanta energia Tiziano avesse in corpo. E quanta curiosità nella mente. C’era in lui una doppia natura: era e voleva essere un seduttore, ma gli piaceva anche essere sedotto. Nelle sue ambizioni c’era una dose di vanità che non nascondeva, ma c’era anche una sensibilità che lo rendeva generoso. Non sempre tollerante. Nel suo carattere accanto alla netta impronta maschile ce n’era anche una che forse a torto definisco femminile. Era una sua virtù: perché agli atteggiamenti talvolta un po’ selvaggi, seguivano momenti di profonda e raffinata gentilezza. Alle collere seguivano pentimenti riparatori.
Ho incontrato raramente esseri umani capaci di immergersi via via nelle realtà più diverse, e dedicarsi con intensità a chi viveva in quelle realtà . C’era chi gli rimproverava di non avere un cervello politico e di perdersi nei dettagli. Ed era invece questa la sua preziosa peculiarità , perché attraverso quei “dettagli”, che non lo erano poi tanto, erano in effetti testimonianze raccolte con fatica sul posto, a contatto con la violenza e la miseria, con l’ipocrisia e la virtù, arrivava a illustrare spesso, assai meglio degli altri, la realtà .
Tiziano non era un freddo osservatore dell’Asia in cui aveva deciso di vivere. Era animato dalle passioni. E accadeva che abbracciasse con passione la verità del momento, che è quella con la quale si confronta il giornalista; una verità che precede la memoria, come la memoria precede la storia; quella del momento è una verità che cambia; e Tiziano onestamente si adeguava a quei cambiamenti, con revisioni spesso sofferte. Non veniva meno ai suoi principi; anzi era proprio per rispettarli che affrontava, a volte con rabbia, quelle revisioni, espresse con toni d’autocritica.
Nel volume dei Meridiani c’è Giai Phong!, La liberazione di Saigon. È la preziosa testimonianza, immediata, della fine di una guerra di trent’anni. Tiziano mi invitò all’Orsigna, nella sua casa sull’Appennino pistoiese, per farmi leggere il dattiloscritto. Era appena tornato da Saigon dove era rimasto con un’altra manciata di giornalisti, dopo l’arrivo dei comunisti nordvietnamiti. Anche quello fu un atto di coraggio, non per i rischi fisici, ma per l’isolamento di settimane senza poter mandare corrispondenze, perché i comunisti avevano interrotto tutte le comunicazioni.
Tiziano aveva orizzonti più profondi di quelli che ha di solito un giornalista, il quale pensa alla chiusura quotidiana, serale, del giornale. Ed è raro che vada oltre. Questa visione più lunga nel tempo gli ha consentito di isolarsi, di vivere l’esperienza della Saigon conquistata dai bodoi, i soldati di Giap, e di scrivere un libro che racconta appunto la riunificazione di un paese in guerra da decenni, fin dall’occupazione giapponese, negli anni Quaranta.
Tiziano non ha amato quel libro, che resta uno dei suoi più validi, perché la descrizione ottimistica, generosa dei comunisti del Nord che si impadroniscono della capitale del Sud, è stata quasi subito oscurata, smentita dalla repressione, dai campi di rieducazione e dalla fuga di tanti vietnamiti (i boat-people). E tra le vittime c’era un nostro comune amico, Cao Giao, che appena uscito da un campo, ammalato di cancro, fu aiutato da Tiziano con generosità (non solo con denari ma anche con scritti che svelavano le perfidie dei suoi aguzzini). E quella generosità era per Tiziano anche un’autocritica.
Eppure Giai Phong!, come la testimonianza di John Reed sulla rivoluzione d’Ottobre, o quella di Edgar Snow sulla Lunga Marcia, o quella di Herbert L. Matthews sul Fidel della Sierra Maestra, è una profezia sbagliata ma una testimonianza destinata a restare. È una verità del momento che andava raccontata, anche se poi è stata smentita dai fatti. Oggi, placatesi da tempo le passioni, il libro rivela tutta la sua autenticità .
Come è un documento unico Buonanotte signor Lenin, dove Tiziano racconta l’impero sovietico in Asia che si sgretola.
Quel viaggio lo decise da solo. Nessun giornale glielo chiese e nessun giornale lo finanziò. Il vanitoso primo attore, ormai meno giovane, aveva grinta. Coraggio.
Le revisioni di Tiziano, giuste e tormentate, dovevano essere per Angela qualcosa di simile alla navigazione in un mare in tempesta. Ho condiviso con Tiziano larga parte dell’esperienza cambogiana. Quelli che sembravano eroi, i khmer rossi, si rivelarono dei nazisti asiatici. E nell’autocritica Tiziano mise tutta la sua passione, ed anche un forte impegno, perché andò in Cambogia a raccontare i massacri compiuti dai comunisti di Pol Pot. Ma la grande revisione fu quella cinese. Era per la Cina che era andato in Asia e arrivato infine a Pechino, con moglie e figli, scoprì una Cina maoista diversa da quella che aveva immaginato. E allora provocò quelli che pensava l’avessero tradito. Lasciava nei cassetti frasi critiche affinché chi veniva a perquisire di nascosto la sua casa le trovasse. E le sue corrispondenze erano giuste e severe. Finì con l’essere arrestato e umiliato dalle autorità di Pechino. Quando era agli arresti domiciliari ci parlavamo al telefono. Fu di una dignità esemplare.
Fu grazie a un intervento di Sandro Pertini, allora presidente della Repubblica (sollecitato dall’amico Malfatti, segretario generale degli Affari Esteri) che Tiziano fu rilasciato ed espulso.
La sua collera esplose nel ’97, quando Hong Kong fu recuperata dalla Repubblica Popolare. Tiziano scrisse allora sul Corriere della Sera articoli catastrofici. I cinesi avrebbero occupato Hong Kong, e avrebbero sottomesso quell’oasi di libertà , creata dal colonialismo britannico. Ammirare l’imperialismo britannico, che alla vigilia di lasciare la colonia l’aveva dotata di una precipitosa democrazia, non era da par suo.
Dopo avere condannato, con ragione, i grattacieli costruiti dai comunisti nella Repubblica Popolare, grattacieli che avevano distrutto il paesaggio tradizionale ed erano una cattiva imitazione dell’America, Tiziano trasformò i grattacieli di Hong Kong in baluardi della libertà . L’ambasciatore inglese a Roma gli mandò un telegramma di ringraziamento. In realtà è stata Hong Kong che ha conquistato la Cina, servendole da campione. Ma nella collera di Tiziano c’era qualcosa di sensato. Odiava il nazionalismo e pensava che quello cinese, esaltato dal successo, era destinato a diventare una minaccia, e non soltanto per i vicini asiatici.
Come si era immerso nel Vietnam in guerra e poi riunificato, come aveva amato la Cambogia dilaniata prima dai B52 americani e poi da khmer rossi, come non aveva apprezzato il Giappone, e aveva sofferto per la Cina, Tiziano si è identificato con l’India. Ed è durante quell’abbraccio con l’India, che è intervenuta la malattia. Ricordo la sua telefonata da Bologna, in preda allo sgomento, appena gli era stato diagnosticato il tumore.
Allo smarrimento iniziale seguirono anni in cui l’audacia, il coraggio dimostrato sulle rive del Mekong, o al di là dell’Ussuri, e lo spirito acquisito in India, sua ultima spiaggia asiatica, gli dettero la forza di affrontare via via, dopo gli inutili interventi chirurgici a New York, l’ultimo tratto della vita.
Ma Tiziano è sempre rimasto il giovane giornalista che incontrai nel 1970. Un personaggio impregnato del ’68 americano e ammiratore del grande giornalismo americano, dove contava tanti amici. Non poteva certo amare la Cina burocratica, né l’America imperiale incarnata da Bush jr, né la miseria di Harlem, né la modernità . Quest’ultima non in quanto tale, ma quando è volgare. E prepotente. Per distaccarsi da un mondo tanto deludente ha finito col predicare il pacifismo, che era un modo di condannare tutti, o quasi tutti, perché sono in molti a servirsi delle guerre. Cosi ha dato anche un senso alla sua collera. E si è dato la forza di morire con dignità .
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Che bello leggervi tutti e due, Terzani e Valli. E grazie a Dirittiglobali.