Non credete al rating

by Sergio Segio | 9 Agosto 2011 7:23

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Iniziamo proprio dalla mancanza di credibilità  di S&P: se mai esistesse un’unica parola per descrivere al meglio il provvedimento dell’agenzia di rating di declassare l’America sarebbe “chutzpah”, sfacciataggine, esemplificata al meglio dal caso del giovanotto che uccide i suoi genitori per poi appellarsi alla clemenza altrui perché è orfano.
L’enorme deficit di bilancio dell’America è prima di ogni altra cosa il prodotto della recessione economica che ha fatto seguito alla crisi finanziaria del 2008. Con le sue consorelle – le altre agenzie di rating – S&P ha rivestito un ruolo determinante nell’innescare tale crisi, assegnando un rating AAA ad asset garantiti da mutui ipotecari rivelatisi in seguito tossica spazzatura.
Ma le sue valutazioni errate non si fermano qui. È notorio che S&P dette un rating A a Lehman Brothers – il cui fallimento innescò il panico a livello globale – fino al mese stesso del suo tracollo. E come reagì l’agenzia di rating quando fallì questa società  alla quale aveva assegnato il rating A? Rilasciando una dichiarazione ufficiale con la quale smentiva di aver commesso alcunché di sbagliato. Sono queste dunque le persone che ora si pronunciano in merito all’affidabilità  creditizia degli Stati Uniti d’America?
Aspettate: c’è anche dell’altro. Prima di declassare il debito pubblico statunitense, S&P ha inviato una bozza preliminare del proprio comunicato stampa al Tesoro degli Stati Uniti. I funzionari di quest’ultimo hanno immediatamente scoperto nei calcoli di S&P un errore di ben duemila miliardi di dollari. Un qualsiasi esperto di bilanci avrebbe dovuto azzeccare quel calcolo, senza commettere errori di questo tipo. Dopo qualche polemica, S&P ha ammesso di aver sbagliato, ma ha declassato ugualmente l’America, limitandosi soltanto a stralciare dal proprio rapporto parte delle analisi economiche errate.
Come spiegherò tra un minuto, a queste previsioni di bilancio non si dovrebbe dare molto peso in ogni caso, ma senza dubbio questo episodio ispira scarsa fiducia nelle capacità  di giudizio di S&P.
Più in generale, le agenzie di rating non ci hanno mai offerto motivo per prendere sul serio i loro giudizi sulla solvibilità  di una nazione. È vero che in genere le nazioni inadempienti prima di fallire erano declassate, ma in questi casi le agenzie di rating si limitavano soltanto a seguire i mercati, che avevano già  rivolto la loro attenzione verso questi problematici debitori.
Nei rari casi in cui le agenzie di rating hanno declassato paesi che, al pari dell’America oggi, godevano ancora della fiducia degli investitori, hanno sistematicamente sbagliato. Si consideri, in particolare, il caso del Giappone che nel 2002 S&P aveva declassato. Beh, a distanza di nove anni il Giappone è tuttora in grado di contrarre prestiti liberamente e con bassi interessi. Venerdì scorso, per esempio, il tasso di interesse sui bond decennali giapponesi era appena l’1 per cento.
Da quanto detto consegue che non c’è ragione alcuna per prendere sul serio il downgrade dell’America di venerdì scorso. Queste sono le ultime persone sul cui giudizio fare affidamento.
Malgrado ciò, l’America ha effettivamente grossi problemi. Si tratta di problemi che hanno a che vedere molto poco con valutazioni precise di bilancio a breve o anche medio termine. Il governo degli Stati Uniti non sta incontrando problemi nel prendere capitali in prestito per coprire il suo deficit odierno. È pur vero che stiamo continuando a ingigantire il nostro debito pubblico, sul quale alla fine dovremo pagare gli interessi; ma se facessimo calcoli esatti invece di declamare grosse cifre con la miglior voce alla Dottor Evil possibile, scopriremmo che nel corso dei prossimi anni deficit anche mastodontici avranno un impatto soltanto minimo sulla sostenibilità  fiscale degli Stati Uniti.
No, a far apparire inaffidabile l’America non sono le cifre di bilancio, ma la politica. Per favore, cerchiamo di stare alla larga dalle usuali dichiarazioni secondo cui entrambe le parti
(dello schieramento politico, ndt) sbagliano. I nostri problemi sono provocati pressoché del tutto da un’unica parte. Nello specifico, sono il risultato di una destra estremista, maggiormente propensa a creare crisi a ripetizione che a cedere di un solo millimetro nelle proprie richieste.
La verità  è che per ciò che concerne l’economia vera e propria, i problemi fiscali americani di lungo termine non dovrebbero essere così difficili da risolvere. Se da un lato è vero che, vigenti le attuali politiche, una fetta sempre più ampia della popolazione in fase di invecchiamento e i crescenti costi dell’assistenza sanitaria faranno inevitabilmente lievitare le spese rispetto alle entrate, d’altro lato gli Stati Uniti hanno spese per l’assistenza sanitaria decisamente più alte di qualsiasi altro paese avanzato e un regime fiscale assolutamente più basso rispetto agli standard internazionali. Se su entrambi questi fronti riuscissimo davvero ad allinearci maggiormente con gli standard internazionali, i nostri problemi di budget sarebbero risolti.
Perché non riusciamo a farlo? Perché in questo paese abbiamo un movimento politico potente che a fronte dei modesti sforzi volti a utilizzare più efficacemente i fondi Medicare, per esempio, ha strillato ai “Death Panels” (letteralmente “le commissioni della morte”, ndt), e che ha preferito rischiare la catastrofe finanziaria piuttosto che acconsentire a un aumento di un solo penny delle tasse.
La vera questione con la quale è alle prese l’America, in termini prettamente fiscali, non è pertanto se dovremo tagliare qualche migliaio di miliardi di dollari qui o lì dal deficit, bensì se gli estremisti che ostacolano qualsiasi tipo di politica responsabile potranno essere piegati e resi inoffensivi.

© 2011 New York Times News Service
Traduzione di Anna Bissanti

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